FAV QUANDO LA PALLA NON VA A CANESTRO.

I trofei di Kobe Bryant non brillano tutti.

FAV QUANDO LA PALLA NON VA A CANESTRO.

I giustizieri dei social, ma anche gli avventori dei bar di paese, vedono o tutto bianco o tutto nero, o sei un eroe o sei un mostro, e su Twitter non è previsto il purgatorio. Ma il lucido Riccardo Luna ci ricorda che la vita dei nostri idoli – così come la nostra, ahimè – non è costellata solo di medaglie, ma anche di macchie. E a volte nemmeno la morte è un candeggio efficace.

“Si può adorare Kobe Bryant come sportivo ed accettare che nella vita personale almeno una volta si comportò in maniera orrenda? Lo possiamo ammirare come marito e come padre esemplare eppure ricordare che questo cursus honorum parte dal 2004, perché prima invece no? Possiamo piangere la sua tragica scomparsa e non dimenticare di quando venne accusato di aver violentato una cameriera di 19 anni di un hotel di Eagle, nel Colorado?

Si tratta di una vicenda di tanto tempo fa, il 1 luglio 2003, ma è tornata in superficie adesso perché poche ore dopo la notizia della morte del campione, una cronista politica del Washington Post, il leggendario quotidiano del Watergate e di altre inchieste analoghe che da qualche anno è di proprietà di Jeff Bezos, la cronista Felicia Somnez  ha fatto un tweet senza commenti linkando un post che ricostruiva il “Kobe Bryant’s Sexual Assault Case”. Quel tweet ha generato due reazioni: quella degli utenti del social, che hanno insultato e minacciato la cronista in ogni modo; e quella del direttore del giornale che l’ha sospesa trasferendola ad un incarico di segreteria per aver violato le regole che il giornale si è dato per i social.

La reazione compatta di trecento giornalisti del Washington Post ha fatto ritornare Felicia Somnez al suo posto di lavoro, ma ha lasciato aperta la questione: quando si può parlare di una vicenda di stupro che riguarda una celebrità? Due ore dopo la morte no? E il giorno dopo? E un anno dopo? Ma ha senso farne una questione di tempismo quando si tratta di ricostruire la vita di una persona? Nell’estate del 2003 Kobe Bryant era in un hotel in Colorado perché li vicino doveva sottoporsi a un intervento chirurgico. La cameriera lo denunciò, lui prima negò, poi disse che lei era d’accordo, e davanti al fatto che lei fosse tumefatta e sanguinante oppose la difesa di aver mani grandi e forti. Venne arrestato e rilasciato su cauzione.

Il processo penale non iniziò mai perché la ragazza vi rinunciò quando gli avvocati della star iniziarono a dipingerla come una prostituta. Ma nel 2004 Kobe Bryant scrisse una toccante lettera di scuse e nel processo civile accettò di pagare circa 2 milioni e mezzo di dollari. Se ne può parlare oppure quando uno muore deve finire per forza in paradiso fra i santi o all’inferno fra i dannati? Perché sui social, e quindi nelle nostre menti, è scomparso il purgatorio? Perché non accettiamo il fatto che la vita delle persone è complessa, sfaccettata, contraddittoria a volte, e anche gli eroi possono avere una macchia?”