La tecnologia non è neutrale: nasce sempre con uno scopo. Il cucchiaio raccoglie liquidi, un libro serve a leggere una lunghissima stringa di parole, a ritrovarle e conservarle nel tempo.

La forma della tecnologia informa il nostro relazionarci con essa: è intuitivo prendere un cucchiaio in mano, tenerlo orizzontale e portarselo in bocca. La tecnologia e gli oggetti, quando sono ben progettati, ci invitano e ci insegnano come essere usati, pur senza parole. Bene.

Qual è dunque la forma della tecnologia social che ci circonda? Cosa ci invita a fare?

Pur semplificando molto, la risposta è una sola: ci invita a essere usata il più possibile, perché più la usiamo, più produciamo valore, sotto forma di dati.

Più usiamo Facebook, più questo ci conoscerà e potrà vendere un nostro “ritratto” a un’azienda, che saprà dunque molto bene quello che vorremo probabilmente comprare. O chi votare. Quale film vedere, quale canzone ascoltare, quale libro leggere, quale celebrità invidiare, quale attrice o attore desiderare.

Ora, più che questione di ergonomia, è questione di business model: Facebook, assieme a Google, YouTube, Twitter, vende pubblicità. Lo ha detto lo stesso Mark Zuckerberg , amministratore delegato di Facebook, ma anche Instagram e WhatsApp, interrogato dal Congresso degli Stati Uniti: «We run ads», gestiamo pubblicità. Secondo Roberto Calasso, dominus di Adelphi, tre parole che sono «l’insegna stessa del terzo millennio».

Il fatturato di Facebook dipende interamente da aziende (ma anche privati, artisti, associazioni, campagne elettorali, enti pubblici) che pagano per visibilità, per finire davanti agli occhi del loro target. Più post Facebook riesce a farci vedere, più soldi fa. Lo stesso vale per i tweet su Twitter, le foto di Instagram, i video su YouTube. Più consumiamo, più saremo esposti a contenuti sponsorizzati, cioè pagati.

Ma non solo: più mettiamo like e commentiamo, più Facebook conoscerà i nostri interessi, quello che ci piace e quello che detestiamo. Sono dati fondamentali, che servono per avere un potere predittivo sempre più accurato e contemporaneamente per offrire ai suoi clienti una precisione prima impensabile, quella che permette di scegliere un target demografico selezionatissimo: “Trentenni lettori ambientalisti che adorano Wes Anderson”, “uomini sessantenni conservatori a cui piace la musica prog e la cucina italiana”, “cinquantenni complottiste di Milano con simpatie new age”, ecc.

Il vecchio adagio

La macchina migliora costantemente, grazie a un “lavoro” che noi stessi forniamo costantemente, e pure gratis. D’altronde, il vecchio adagio internettiano per cui «se un prodotto è gratis, il prodotto sei tu» vale sempre. Pensavamo davvero fosse possibile avere servizi incredibili come Facebook, Google, Twitter, YouTube, completamente gratis, senza alcuna ripercussione?

Rispetto a Wall Street, la Silicon Valley è certamente più «hungry and foolish» (come il celebre motto di Steve Jobs) ma il suo spirito capitalista in fondo funziona sempre allo stesso modo.

E la cosa incredibile è che non siamo costretti: siamo persuasi, che è completamente diverso. Noi vogliamo. O, più precisamente, siamo caldamente invitati a volere.

Se di totalitarismo si tratta, non è certo a immagine e somiglianza del grande fratello di George Orwell, ma piuttosto del Mondo nuovo di Aldous Huxley. Una utopia distopica basata sul piacere.

Infatti, uno degli strumenti che viene sfruttato è una sostanza che tutti abbiamo nel nostro cervello, che si chiama dopamina. La dopamina è la responsabile del senso di benessere ed eccitazione che proviamo quando un nostro post o una nostra foto si riempie di like, ma anche semplicemente quando vogliamo vedere le novità su Facebook.

Chiudete un attimo gli occhi. Dopo una lunga e noiosa riunione di lavoro avete un momento libero, tirate fuori il cellulare e vi appare il rosso fuoco dell’icona notifiche: percepite quella scintilla di fugace piacere, quella scossa di godimento nell’attesa della notifica e nella sua visione? Ecco, quella è dopamina.

Dove si nasconde il piacere?

La dopamina, assieme ad altri neurotrasmettitori, è la vera responsabile del piacere dentro il nostro cervello: il piacere non si trova mai dentro il cioccolato, o negli occhi della persona che amiamo, o nel gol della nostra squadra. Come ricorda Yuval Noah Harari in Homo Deus, quello è il mondo che accade fuori di noi, e che agisce sul nostro cervello: sono eventi che scatenano reazioni biochimiche, generano scariche di neurotrasmettitori, che noi riconosciamo come sensazioni di piacere, amore, euforia. È questa biochimica che noi chiamiamo piacere, ed è questa a farci funzionare. In un certo senso, noi non cerchiamo dunque l’amore: cerchiamo un evento che ci riempia di serotonina e ci faccia sentire bene. Potessimo provare le stesse sensazioni con una semplice pillola, lo faremmo.

Il punto è, come ben sappiamo, al piacere ci si può abituare, si può sviluppare una dipendenza.

Provate a togliere un cellulare a una persona che ne fa costantemente uso, che siate voi o vostro figlio adolescente: dopo qualche ora, ci saranno segni di nervosismo, insofferenza, perfino rabbia. È una reazione data dall’astinenza.

Non a caso, molta critica di sinistra chiama le piattaforme estrattive come Facebook, Twitter, YouTube “neurocapitalismo”: è un intero sistema economico quello basato sul principio biochimico. Il paragone migliore è con il gioco: le piattaforme hanno letteralmente incorporato dentro di loro meccanismi e tecniche proprio dei giochi, dai videogame ai giochi d’azzardo.

Una volta veniva chiamata gamification (parola che non ha un corrispondente italiano se non un arcaico ludicizzazione), e in sé non è cosa necessariamente malvagia: perché non imparare dai migliori e far sì che un prodotto o un servizio sia più facile, più veloce, più semplice, più divertente da usare?

Loren Brichter, giovane inventore della funzione “scorri per aggiornare”, la vede tuttora come un gesto che ricorda il tirare la leva della slot machine: scorro il pollice dall’alto al basso sullo schermo e aspetto che accada qualcosa, che appaiano nuovi tweet, che ci siano nuovi post aggiornati di Facebook. Non so cosa arriverà, ma sarà sicuramente nuovo, più nuovo di quello che stavo leggendo pochi secondi fa. Come un piccolo premio.

La cosa ancor più incredibile è che, tecnicamente, quel tasto non serve più, dato che la app potrebbe tranquillamente aggiornarsi in maniera automatica, ma il gesto fisico piace, dà sicurezza, dà piacere, dà dipendenza.

Il lato oscuro del gioco

Fra biologia e volontà, la prima tende a vincere sul lungo periodo (avete mai provato a fare una dieta?). Sul web, tutto o quasi tutto quello che usiamo è fatto per farci distrarre, attraverso minuscoli ma continui picchi dopaminici che ci danno una sensazione di benessere. È un grande, enorme videogioco, ed è un peccato che Alessandro Baricco, nella sua metafora del game, abbia solo guardato alla parte ludica, quella che semplifica e nasconde la complessità, senza però esplorare il lato oscuro della dipendenza.

Come afferma James Williams, ex di Google e ora filosofo della cyberetica: «Gli obiettivi e le metriche utili agli scopi della pubblicità sono diventati gli obiettivi e le metriche dominanti nella progettazione dei servizi digitali». La pubblicità di fatto deforma e orienta tutta l’infrastruttura dell’era digitale. Si sente un po’ di questo cambio di prospettiva anche nei nomi: per le piattaforme, non siamo persone, ma utenti.

Le conseguenze della nostra dipendenza digitale, per nascosta che sia, in realtà le conosciamo tutti: minor autocontrollo, una attenzione perennemente frammentata e sotto attacco da milioni di piccole distrazioni che pretendono la nostra attenzione, e ci rubano risorse scarsissime come il tempo, la concentrazione, la volontà.

Come dice il filosofo Matthew Crawford, «la distraibilità può essere considerata l’equivalente mentale dell’obesità»: rimanendo nella metafora, è come se ci offrissero ogni minuto patatine fritte.

Non mi arrischio a parlare di attacco al libero arbitrio e alla democrazia, ma dalla notifica push alla manipolazione tramite propaganda politica il passo non è così lungo: la tecnologia è la stessa, le piattaforme anche, gli esempi sotto gli occhi di tutti.

L’ultimo secolo ha visto affermarsi grandi industrie dedicati al lobbying di sostanze che danno dipendenza.

Dopo Big Tobacco, Big Pharma e Big Sugar, forse siamo di fronte ad un nuovo cartello a cui dare un nome: io propongo Big Dopa.