In quest’epoca in cui nessuno si nega la sua piccola fama social (e altro che quarto d’ora di celebrità di Andy Warhol, qui sono anni di piedi smaltati e labbra protese, proclami al mondo e baruffe di condominio, bambini e gattini, dichiarazioni d’umore più che d’amore), la storia dell’anonima per scelta Elena Ferrante, di cui nonostante la fama letteraria si conosce solo la città di nascita, Napoli, ci piace moltissimo. “Non parteciperò a dibattiti e convegni, se mi inviteranno. Non andrò a ritirare premi, se me ne vorranno dare. Non promuoverò il libro mai, soprattutto in televisione, né in Italia né eventualmente all’estero. Interverrò solo attraverso la scrittura»: questa sua lettera è anche il migliore indizio per capire che la Ferrante, già nel 1991, i meccanismi dell’ambiente editoriale li conosceva bene e se ne voleva, e poteva, sottrarre. O perché li gestiva già, come editor o saggista, o perché ne era già partecipe per via dell’altra sua identità di scrittrice, o addirittura forse scrittore, c’è chi dice sia maschio. Perfino al premio Strega se ne sono dovuti fare una ragione, anche se l’autrice è senza volto e senza nome a parte uno pseudonimo, il comitato ha dovuto ammetterla lo stesso al concorso. E adesso l’anonima scrittrice ha l’onore di presentare agli inglesi perfino la britannica Jane Austen, perché la casa editrice The Folio Society, nota per la cura nella pubblicazione di classici in versione elegante e cartonata, ha appena ristampato, con la prefazione della Ferrante, Sense and Sensibility. La critica anglofona ama molto la scrittrice napoletana, non stupisce quindi che il suo nome appaia accanto a quello dell’intramontabile Austen. Se, d’altra parte, l’autrice inglese scelse l’anonimato per le prime edizioni dei suoi romanzi, la nostra mantiene tuttora il più assoluto riserbo sulla propria identità. Semina indizi, come in questo particolare debutto editoriale, raccontando poco di sé – da adolescente era più attratta dai racconti d’avventura prettamente maschili – e molto attraverso l’analisi critica di Ragione e Sentimento, che si focalizza sulle figure forti di entrambe le sorelle Dashwood: Elinor e Marianne. Ma soprattutto sulla loro sorprendente capacità di andare d’accordo, fino alla fine, nonostante siano, appunto, sorelle. Relazione familiare che, scrive la Ferrante, spesso può essere «piena di insidie e di pericoli». Un indizio autobiografico? Chissà.