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The kitchen maniacs tales - storie di maniacalità quotidiana.

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dt logo2La storia del bambino pignolo che riuscì a tenere testa al bramino.

Jadav Musai Bayeng era un bambino pignolo. Figlio di un umile pescatore, viveva in un piccolo villaggio sulle rive del fiume Brahmaputra, al limitare di una rigogliosa foresta. La sua passione erano gli animali, di loro sapeva tutto, anche le cose più sconosciute: quante zampe ha una pulce, quante ciglia ha l’occhio di un elefante, in quanto tempo muore un pesce Sicamugil fuori dall’acqua. Quella mattina però, Jadav si era svegliato con un dubbio e aveva chiesto di parlare con il bramino. Il bramino si trovava sul Kairash, la montagna sacra a sei giorni e sei notti di cammino dal villaggio, ma lui insistette così tanto che alla fine fu portato al suo cospetto per fare la sua domanda. Voleva sapere se la tigre fosse arancione a righe nere o nera a righe arancioni. Il bramino mosse appena le pupille sotto le palpebre chiuse e così sentenziò: “Sei un bambino pignolo, Jaday Musai Bayeng, ma la tua pignoleria non impedirà alla tigre di mangiarti.” Il piccolo Jaday ci pensò un po’ su, poi disse: “La tigre di cui sto parlando è un maschio, e solo le tigri femmine vanno a caccia.” E fu così che, da quel giorno, Jaday che riuscì a tenere testa al bramino venne promosso dall’ultima alla prima casta, nonostante le rimostranze del bramino.

 

La storia dell’alluce che misurava la temperatura dell’acqua termale con estrema precisione.

 

Erano 27 anni che ogni mattina di buon’ora Fridrik Vilmos si recava ai bagni termali Széchenyi di Pest, uno dei più grandi e rinomati complessi balneari d’Europa. Ma non era per il piacere dei bagni o per le cure che il signor Vilmos ci andava. “Misuratore responsabile capo delle piscine Széchenyi” era scritto sul suo biglietto da visita, il suo compito era quello di misurare le temperature di tutte e 19 le piscine prima dell’arrivo degli ospiti. L’acqua della piscina da nuoto all’aperto doveva essere rigorosamente di 26 C°, quella della piscina per divertimento di 30 C° d’estate e di 34 C° d’inverno. 38 dovevano essere i gradi della piscina relax, mentre la temperatura delle 11 vasche coperte doveva andare in ordine crescente dai 28 ai 40 C°. Infine c’erano 3 vasche per immersione a 18 C° e 3 piscine per le cure termali a 30 C°. Un estenuante lavoro che il signor Vilmos eseguiva con uno strumento di precisione infallibile: l’alluce del suo piede sinistro. La semplice immersione nell’acqua di questa piccola appendice del suo corpo gli permetteva di sapere all’istante se la temperatura era quella giusta. E in 27 anni non aveva mai sbagliato di un solo grado.

 

La storia di un amore puntiglioso che riuscì a oltrepassare il muro.

 

Il muro era stato tirato su una mattina d’estate del 1961 e buttato giù ventotto anni dopo. Wildfried e Hannelore, giovani sposi di Berlino, si erano ritrovati divisi all’improvviso: Hannelore, che era andata a trovare un’amica, non era più potuta rientrare a casa. Per tutti quegli anni, a costo della vita, Wildfried aveva tentato qualsiasi sistema per raggiungerla a Est o farla tornare a Ovest, ma non c’era stato niente da fare. Per non darla vinta a quel muro però, scrivendosi di nascosto, i due innamorati si erano accordati per un piccolo e puntiglioso rito serale: continuare a cenare insieme. Così, sempre alla stessa ora, seduti lui da una parte e lei dall’altra del tavolo della cucina, anche se di due tavoli diversi e in due cucine separate, erano riusciti a vedersi uno di fronte all’altro e a continuare ad amarsi per tutti quegli anni. Poi era arrivato il giorno della riunificazione, e il governo della Repubblica Democratica della Germania dell’Est aveva annunciato che le visite a Berlino Ovest avrebbero potuto riprendere. Wildfried e Hannelore si erano riabbracciati e avevano fatto l’amore come due ragazzi. E finalmente si erano seduti di nuovo allo stesso tavolo.

 

La storia del tempo che spaccava il secondo dell’ora che voleva lui.

 

Mancava poco all’arrivo di Revontulet, l’Aurora Boreale. Poco poteva voler dire qualche minuto ma anche qualche ora, perché nonostante gli scienziati dell’Ilmatieteen Laitos – l’Istituto Meteorologico Finlandese – da anni studiassero con ostinazione i dati a loro disposizione per preannunciare il fenomeno con sempre maggiore precisione, l’esatto momento in cui sarebbe cominciata non era mai esatto, e come ogni volta il suo arrivo avrebbe colto gli occhi di sorpresa. La verità era che l’interazione del vento solare con il campo elettromagnetico terrestre era più uno spettacolo per gli occhi che un fenomeno ottico, e come tutti gli spettacoli prevedeva la sua dose di suspense. Erano colori mai visti, sfumature di luce; erano giallo, verde, rosso, azzurro e violetto in forme sempre diverse e imprevedibili che riverberavano sulla tavolozza nero intenso della kaamos, la lunga notte polare. Un giovane scienziato più testardo e ostinato degli altri arrivò fino a Nuorgam, il punto più a Nord, per chiedere al pescatore più esperto a che ora sarebbe arrivata l’Aurora. L’uomo gli aveva risposto con un sorriso appena accennato che non gli aveva scomposto le fitte rughe. “All’ora in cui il tempo finisce il suo quadro, spacca sempre il secondo.”

 

La storia del marinaio ostinato che riuscì a sposare la sirenetta.  

 

Ogni volta che rientrava in porto lei era lì ad aspettarlo. Notti di onde ripide che facevano pattinare la barca, di vento che tagliava la faccia, di reti gonfie di pesce da tirare a bordo; l’unica compagnia quella degli altri marinai come lui, ma poi, al mattino, lei era sempre lì, lo sguardo innamorato e un sorriso lieve, solo lui poteva vederlo. Gli altri marinai lo deridevano, ma cosa potevano saperne di sentimenti, quegli zoticoni? A forza di prendere il mare in faccia erano diventati impermeabili. Ogni domenica Jacob andava in chiesa a parlare con il pastore dell’amore che provava per la ragazza del porto. E ogni volta il pastore cercava di convincerlo che quello che provava non poteva essere amore. Anche quella domenica aveva provato a dissuaderlo, aveva perso la pazienza e gli aveva detto in modo brusco che la ragazza non aveva le gambe. Lo sapeva, aveva risposto lui, era innamorato ma mica cieco. Ma cosa sono un paio di gambe rispetto alla grandezza dell’amore? L’amore corre, vola, non ha bisogno di gambe. E fu così che Jacob riuscì a convincere il pastore che quello che provava per la sirenetta di Copenhagen era amore vero. E il pastore, in una bella mattina di primavera, testimone solo il mare, lo sposò con la statua dei suoi sogni. 

 

La storia dell’orologio della torre che perdeva un secondo ogni dieci anni.

 

Viveva nel palazzo reale, aveva schiere di servitori, i sudditi si toglievano il cappello al suo passaggio, tutte le bambine del regno sognavano di essere al suo posto, glielo leggeva negli occhi quando con la scusa di fare l’inchino si avvicinavano ai suoi gioielli, quelle furbette. Ma allora cos’era quella malinconia che velava sempre lo sguardo di Her Majesty Queen Lisbeth? Un giorno una giovane dama di compagnia, rompendo il protocollo di Palazzo, le rivolse la parola per prima e glielo chiese. Lei la guardò come se la vedesse per la prima volta, fece passare un lungo momento e poi rispose. “Il tempo, mia cara. Il tempo di Plank, la più piccola quantità di tempo tecnicamente misurabile. Un tempo più illusorio che assoluto, dal momento che l’unità di misura ufficialmente riconosciuta è il secondo. È una delle poche cose che non mi riesce di dominare, anzi, ad essere precisi direi che si fa beffe di me. Prendi il Big Ben. Le lancette dell’orologio della torre più importante di Londra non sono precise. Perdono colpi. Addirittura 1 secondo ogni 10 anni. Insopportabile.” La dama non se la sentì di controbattere, ma alla sera convenne con il primo maggiordomo che la Regina era una donna dalla maniacalità piuttosto spiccata.

 

La storia dell’uomo che preparava il sushi con il compasso.

 

Il signor Hoshiko si divertiva a contare dalla finestra i petali di ciliegio che volavano via dai rami. Con ordine meticoloso aveva disposto sul tavolo della cucina tutti gli ingredienti: le vaschette hangiri per il riso, le stuoie di bambù, i coltelli affilati, e le sue mani si muovevano senza esitazioni. Dopo 6.812 petali il sushi era pronto, era diventato più veloce del saggio maestro shokunin. Tutti facevano i complimenti al signor Hoshiko per il suo sushi. Non era tanto per il pesce che sceglieva personalmente ogni mattino, e nemmeno per il riso Kome che si faceva arrivare dalle coltivazioni sulle rive del Mogami, né per l’aceto di riso dei suoi avi o per i suoi fogli di alga Nori lucidi e neri come l’onice. Il fatto che più destava curiosità era l’estrema precisione con cui riusciva a fare dei rotolini perfettamente tondi, cerchi così perfetti che nemmeno Giotto in persona avrebbe potuto disegnarli. Una sera, una giovane invitata lo pregò di rivelare il segreto di tanta precisione. Sorseggiando in silenzio il suo Sake fumante, il signor Hoshiko aprì un cassetto e gli occhi della ragazza si illuminarono per la sorpresa: il segreto riposto in cucina era un compasso.

 

La storia della ribollita senza cavolo nero.

 

Il giorno della ribollita Antonia scuoteva sempre la testa. Cominciava a scuoterla preventivamente, prima ancora di controllare i sacchetti della spesa. Puntuale arrivava l’accusa: “Manca il cavolo nero. Senza cavolo nero la ribollita è azzoppata.” Poi si metteva ai fornelli come un pianista davanti a un pianoforte a cui mancava un tasto. “Tre sono le colonne portanti della ribollita: ci devono essere i fagioli e ci devono essere due tipi di cavolo, il cavolo verza e il cavolo nero.” La sua era una vera e propria arringa, andava avanti per ore, in pratica per tutto il tempo di preparazione della ribollita. Precisa, puntigliosa, Antonia sviscerava ogni dettaglio e si accalorava come un avvocato davanti alla corte. “I fagioli solo cannellini secchi, e prima della cottura devono stare in ammollo per una notte intera, neanche un minuto di meno, e sempre insieme a un osso di prosciutto crudo o alla cotenna di maiale.” “Che buona la sua ribollita, Antonia!” Esclamò una sera la nuova amica del padrone di casa, l’avvocato vedovo per cui Antonia cucinava – e borbottava – ininterrottamente da venticinque anni. “Buona no, buonina.” Rispose lei. “Buona sarebbe stata con il cavolo nero.”

 

La storia della nebbia che non ne voleva sapere di viaggiare.

 

Il gruppuscolo di professori inglesi scendeva a valle sotto una fitta pioggerellina. Procedeva a grandi falcate per non bagnarsi troppo, ma i pantaloni di lana erano già tutti intrisi, non tanto per le gocce di pioggia – ­così piccole e leggere che restavano sospese nell’aria ­- ma per l’acqua che saliva dalla terra delle Langhe, ai pantaloni quell’acqua piaceva berla più del vino. Al loro arrivo nella cascina i professori trovarono il fuoco che crepitava e la signora Nora che aveva già scaraffato il nebbiolo. “Il più antico vitigno autoctono a bacca nera del Piemonte, uno tra i più nobili d’Italia, la sua uva è chiamata la Regina.” Disse uno di loro versando il vino nei calici. “Forse anche per questo Lord Spencer vuole ricreare le condizioni più adatte alla sua coltivazione nelle sue tenute del Kent. Non ha tralasciato nulla, neanche il più piccolo particolare, ma manca ancora qualcosa. Noi siamo qui per scoprire cosa.” La signora Nora sorrise dell’ostinazione degli inglesi, così presi dalla conversazione non s’erano nemmeno cambiati d’abito. “Ve lo dico io cosa.” Disse loro. “Manca la nebbia, da che sono nata non se n’è mai andata da qui, ma magari voi con le vostre teste dure la convincete a viaggiare.”

 

La storia della precisa sfumatura di scuro della birra scura.

 

Dulligans era al 9 di Poolberg Street dal 1783, e dal 1783 spillava la migliore birra scura di Dublino. Gli avventori erano sempre quelli anche dopo due secoli: marinai, operai dei cantieri navali e qualche prete. Niente donne, fatta eccezione per la proprietaria Molly, sempre che Molly potesse rientrare nella categoria delle donne: tredici figli maschi e stesso numero di anni di galera per una coltellata a una ragazza che voleva portarle via il marito. Sta di fatto che quella sera qualcuno disse che il colore della birra del Dulligans era cambiato, che era un tono un po’ più scuro del solito scuro, forse addirittura due o tre sfumature più scure. Tutti alzarono i loro bicchieri, qualcuno sollevò la sua pinta in controluce, per abitudine padre Ray ripeté il gesto che faceva la domenica con il calice di vino, e tutti risero. Poi la discussione prese una piega più seria, ognuno voleva dire la sua e qualcuno la disse con le mani. All’alba Molly scoppiò in una risata e svelò il mistero: non era cambiato il colore della birra, era solo il vetro dei nuovi bicchieri che era più spesso. “Adesso tornate a casa a bere il latte” – disse guardandoli dall’alto in basso – “che quello è sempre dello stesso colore.”

 

La storia della misteriosa sparizione di una minuscola lentiggine.

 

La prima cosa che si notava di Aileene erano le lentiggini. Prima ancora che dal blu cobalto degli occhi e dal rosso vivo dei capelli, tutti gli sguardi erano catturati da quelle piccole costellazioni che le punteggiavano la pelle candida. Erano 922 sul viso e 1.780 sul petto, e ogni volta che David il grande illusionista provava un numero con lei non poteva fare a meno di contarle e ricontarle tutte, e desiderare di unirle con i tratti di una matita per scoprire che disegno ne sarebbe uscito. L’aveva scelta alle audizioni per il posto di assistente, la bella Aileene. Esperienza come spettacoli di magia nessuna, ma l’aria spavalda di chi se la sarebbe cavata in ogni situazione c’era tutta: l’ideale per il debutto al Festival di Edimburgo del nuovo spettacolo The Impossible Floting, levitazione e sparizione totale dell’assistente sotto gli occhi del pubblico a pochi metri dal palco. E, come da copione, Aileene era levitata e sparita, lasciando tutti basiti. Ma quando era riapparsa, anche David era rimasto senza parole. Sul volto di Aileene mancava una lentiggine, quella minuscola vicina alle labbra. Aveva desiderato baciarla tante volte, e adesso non sapeva più come farla tornare.

 

La storia delle imitazioni quasi perfette che non riuscivano a essere uguali all’originale.

 

Era il 1832 quando il giovane pasticciere Franz Sacher, che aveva il pallino per il cioccolato e lavorava alle dipendenze del Ministro degli esteri austriaco, ebbe l’idea che divenne l’incubo di tutti i pasticcieri: la Sacher Torte. Due strati di pasta di cioccolato leggera, al centro un sottile strato di confettura di albicocche, e una spessa copertura di glassa di cioccolato fondente, servita a 16, massimo 18 gradi di temperatura e accompagnata da panna montata rigorosamente non dolce. In tutti questi anni, migliaia di pasticcieri professionisti si erano misurati con la Sacher, ma nonostante si fossero applicati con il massimo impegno, con dovizia di particolari e con caparbia puntigliosità, le loro buone, a volte quasi perfette imitazioni, non erano mai riuscite a essere l’originale. C’era stata perfino la soffiata dei 18 albumi e 14 tuorli dell’assistente pasticciere dell’Hotel Sacher di Vienna, custode della ricetta originale e unico produttore ufficiale riconosciuto dal governo, ma niente da fare. Il ragazzo era poi stato perdonato, la vera Sacher Torte non era certo una banale questione di numero di uova, altrimenti ci sarebbe potuta arrivare anche una gallina.

 

La storia della bancaria irreprensibile che corse dietro al rapinatore.

 

Linda lavorava alla Raiseizzen Bank di Zurigo da quattordici anni. Precisa, accorta, meticolosa, puntuale, mai avuto problemi con i clienti, mai ricevuto un appunto dai capi, in tutto e per tutto un’impiegata modello. Irreprensibile consulente finanziaria per la clientela estera, la sua non era una di quelle banche che ripulivano operazioni finanziarie spregiudicate facendole tornare immacolate, come facevano tante altre. Per scherzare, fra colleghi si diceva che un giorno sarebbero finiti tutti a lavorare in una “lavanderia”, ma nessuno di loro ­- Linda per prima -­ avrebbe mai accettato un lavoro disonesto. Eppure in quel momento, con il rapinatore a pochi centimetri dal suo corpo, la pistola puntata nella sua direzione, le labbra serrate e gli occhi che brillavano dalle fessure del passamontagna, le certezze di Linda si erano sciolte come neve al sole. Non stava pensando all’ingiustizia della rapina, no, ma all’ingiustizia ancora più grande di non poter baciare quelle labbra. E quando si sentirono le sirene della polizia e il rapinatore cominciò a correre, anche lei cominciò a correre dietro di lui. Ma non per acciuffarlo e consegnarlo alla polizia, come i suoi capi pensarono. Per acciuffarlo e basta.

 

La storia del panificio che sfornava baguette di 63 centimetri esatti.

 

A Parigi lo conoscevano tutti il panificio Poilânie. Fondato nel 1931 da Jules Poilânie in Rue de Melar a Saint-Germain-des-Près, era rimasto uguale ad allora, fatta eccezione per il figlio che aveva preso il posto del vecchio Jules; ma siccome anche il Poilânie figlio si chiamava Jules e aveva gli stessi baffetti del padre – detti appunto baffetti alla Jules – a parte la sensazione che Jules padre portasse sempre meglio i suoi anni, alla fine era tutto come prima. Al mattino presto il profumo di Poilânie si spandeva per tutto il quartiere, e le signore spalancavano le finestre e le narici per far entrare l’air du pains au chocolat, du croassaint amandes e du tartatain e carpire gli ingredienti segreti che Jules padre in punto di morte aveva confidato a Jules figlio. Ma il mistero più fitto di Poilânie restava quello delle baguette, che misuravano tutte 63 centimetri precisi, né un millimetro di più, né uno di meno. Qualcuno faceva notare che 63 centimetri era la misura dell’omero del vecchio Jules, altri dicevano che di notte il suo fantasma misurava le baguette una ad una prima che venissero infornate. E a sentire quelle storie Jules figlio se la rideva sotto i baffetti.

 

La storia dell’orecchio che riusciva a sentire i suoni che venivano da dentro.

 

Quando Wolfang – all’anagrafe Amadeus Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus – vide la luce, era in tutto e per tutto un bambino uguale agli altri: pianto non particolarmente melodioso, salute non particolarmente cagionevole, orecchie non particolarmente grandi. Ma non appena il piccolo Wolfang cominciò a fare le sue prime passeggiate tra la Getreidegasse e la Hannibalplatz con la balia, fu chiaro a tutti che non si trattava di un bambino come gli altri. Sguardo sempre concentrato, sembrava ascoltasse i rumori attorno a lui con un’attenzione maniacale, pareva memorizzare con puntigliosità ogni suono: dal soffio del vento al canto degli uccelli, dalle ruote dei carri alle risate degli ubriachi delle BierStube. Quello che fu chiaro dopo qualche anno però, era che quando Wolfang sembrava intento ad ascoltare, non stava davvero ascoltando come fanno tutti. Il suo orecchio sentiva qualcosa che gli altri non potevano sentire, perché non ascoltava i suoni che arrivavano dall’esterno, ma quelli che venivano da dentro di lui. Il giorno che il maestro gli diede il suo primo spartito, Wolfang cominciò a scrivere quello che sentiva in modo frenetico. E non si fermò più.

 

La storia dell’ebanista minuzioso che operava sul legno come un chirurgo.

 

Prospero Cafiero era il miglior ebanista di Mergellina, ma per tutti era “O’ chirurgo”, per l’aria da luminare e la precisione con cui sceglieva, tagliava e accostava i pezzi di legno. Avevo passato l’infanzia ad ammirare il suo lavoro in silenzio, finché ebbi il coraggio di chiedergli ­ per la verità gli feci chiedere da un cugino che avevo pregato di intercedere per me ­ di prendermi a bottega da lui. Aveva da poco compiuto sessant’anni, non aveva avuto figli ai quali insegnare il mestiere, e il cugino lo convinse. “Passami l’acero.” Fu la prima e ultima frase che mi disse il primo giorno. Io sbagliai legno, gli passai l’ulivo, lui prese il pezzo di acero da sé e non disse più niente fino a sera. Un giorno in laboratorio arrivò la signora Friarielli, con quell’aria tronfia e quel profumo che la precedeva prima ancora che entrasse dalla porta, e disse che voleva un tavolo che facesse schiattare le sue amiche d’invidia. O’ chirurgo soppesò quella richiesta, come faceva con il legno quando ne saggiava la consistenza, e dopo un momento interminabile le rispose che l’invidia era un tipo di legno che non usava, per quella poteva rivolgersi al falegname più avanti. Erano anni che cercava di rifare i suoi pezzi e non ci riusciva.

 

La storia del sarto addormentato che riconosceva le stoffe a occhi chiusi.

 

La sartoria, silenziosa e profumata di stoffe, sembrava addormentata. Rotoli di lana, cotone, seta, manichini, metri, gessetti, aghi, forbici, il “ciucciarello”, il cavalletto che si adoperava per dare forma alle spalle delle giacche e ai revers, la “pezza ‘e caso”, la mezzaluna di legno che serviva per dare forma all’abito: tutti gli attrezzi, perfettamente ordinati al loro posto, sembravano aspettare lui. Cosimo Corallo, dopo sessant’anni di onorata carriera ­- aveva vestito perfino una principessa di Roma ­- all’improvviso era caduto addormentato. Nessuno sapeva il motivo, ma tutti sospettavano che la causa del suo stato fosse l’insofferenza acuta ai costumi moderni, in particolare ai negozi della grande distribuzione, quelli alla “pago e vado”. A Cosimo Corallo il già confezionato, lo standard, l’uguale per tutti, facevano orrore. Lui che aveva fatto del lavoro rigorosamente artigianale la sua ragione di vita, un rito seguito in maniera religiosa, lui che conosceva al millimetro le taglie, i gusti, i colori e le preferenze di ogni cliente, letteralmente inorridiva alla vista di quella volgarità, e aveva deciso di non vederla più. Il suo non era un sonno vero e proprio, era una resa. Gli occhi erano chiusi, sì, ma le orecchie erano sveglie, gli bastava un fruscìo per distinguere un Harris tweed da un Donegal tweed.

 

La storia della signora Flavia che disegnava le strade al millimetro.

 

Non percorreva le strade, la disegnava. Tracciava delle linee precise come disegni sulla carta e tagliava le curve al millimetro. Niente aerei e niente treni, per la signora Flavia c’era un solo mezzo per muoversi: l’automobile. Le amava tutte e ne aveva tre: stesso modello, stesso anno d’immatricolazione, 1965, e stesso colore, argento. Tre identiche Lancia Flavia Zagato Coupé – per ironia della sorte le auto avevano il suo stesso nome – sempre con il pieno di benzina, sempre oliate e lucidate alla perfezione per essere pronte all’occorrenza. Quando la vedeva arrivare in garage, Vincenzo borbottava per via della stranezza di quella situazione: faceva l’autista della signora Flavia da più di trent’anni e non aveva mai guidato per lei, si occupava solo della manutenzione delle auto e le faceva compagnia nei lunghi viaggi facendosi portare, come se l’autista fosse stata lei di lui e non lui di lei. Una donna autista, figuriamoci. Ma quando la signora Flavia era alla guida, doveva riconoscerlo, la beatitudine era assoluta. Le strade sembravano fatte di nuvole, le curve di zucchero, Vincenzo si sentiva un bambino nella culla. E pazienza se a dondolarlo era lei.

 

La storia delle siepi di bosso che ricrescevano dritte come tratteggiate con un righello.

 

Nella sua vita Cesare ne aveva viste tante, la botanica era una scienza perfetta ma anche imprevedibile, ma una cosa così non riusciva proprio a spiegarsela. Le siepi di bosso che tagliava a Villa Oleandra – la marchesa Isolde aveva una vera passione per le forme di animali: cani, elefanti, giraffe, uccelli – dopo qualche giorno si rimettevano in pari. Le foglie e i rami che erano stati potati ricrescevano più veloci degli altri che erano stati lasciati più lunghi e li raggiungevano. Il risultato era che le siepi tornavano a essere perfettamente dritte, senza nemmeno una fogliolina che disobbediva, come se fossero state tratteggiate con un righello. Per un giardiniere come lui, con lunghe liste d’attesa di clienti che facevano carte false per averlo, era un affronto. Aveva consultato un’infinità di testi, perfino gli antichi erbari dei monaci, poi aveva chiesto lumi a Rodolfo, il giardiniere più esperto della riviera di ponente. Accarezzando quelle foglioline ostinate, Rodolfo gli disse che la mano dell’uomo può potare, indirizzare, ibridare, ma prima di lei c’è la mano del giardiniere più importante di tutti: la Natura. E quando è lei a disegnare, non sbaglia di un millimetro.

 

La storia dei piloti acrobatici che tracciarono una scritta perfetta in cielo.  

 

Il suo era stato l’aereo solista, quello che nella formazione precedeva gli altri nove, il 5° Stormo della Pattuglia Acrobatica Nazionale, dieci piloti acrobatici su aerei F-84G Thunderjet, poi ribattezzati il Guizzo, perché seguendo un suo guizzo del momento in una gara, i piloti alla sommità di un looping si erano gettati in picchiata richiamando l’aereo solo a pochi metri dal suolo. Per quella manovra precisa ma imprudente erano stati quasi radiati dall’albo ufficiale, ma erano entrati nella leggenda. Erano passati tanti anni da allora, ma per il suo ottantacinquesimo compleanno Aurelio aveva richiamato la sua formazione, o meglio quelli di loro ancora in vita, in tutto cinque, gli altri erano volati in cielo senza bisogno di aerei. Entrati di soppiatto nei vecchi hangar erano riusciti a decollare con i loro mitici monoposto d’argento. Niente acrobazie questa volta, velocità e quota da piloti alle prime armi, ma l’emozione era stata grande lo stesso, Aurelio aveva sentito battere tutti i suoi bypass. Prima di atterrare avevano voluto autografare il cielo e avevano tracciato una scritta perfetta, sembrava fatta con il normografo, sei lettere in tutto: G,U,I,Z,Z,O.

 

La storia del calciatore bambino che aveva la precisione balistica di un cecchino.

 

José Guilherme Everaldo Baptistao Barroso da Silva aveva nove anni, ma già un curriculum di tutto rispetto. Aveva iniziato a giocare a cinque calciando qualsiasi cosa gli capitasse a tiro nelle strade polverose di Campea Rochinha, la favela di Rio dove era nato, e adesso era famoso in tutto il Brasile per la precisione millimetrica del suo calcio d’angolo. I procuratori più importanti non vedevano l’ora che crescesse per accaparrarselo, ma sua nonna – José era rimasto orfano quando i suoi genitori erano stati uccisi in una manifestazione di protesta contro il governo – non aveva voluto fare accordi con nessuno, José doveva studiare, non come suo padre che aveva lasciato la scuola e si era cacciato nei guai. Un giorno il portiere del Santos, che incuriosito era venuto a vederlo giocare, gli chiese di tirare contro di lui. José rispose timidamente di no. Il portiere insistette, avrebbe parato con facilità il tiro di un “nino”, un bambino, disse ridendo. José per rispetto obbedì e colpì piano, ma anche a quella velocità rispettosa la sua era la precisione balistica di un cecchino, e la palla si infilò nell’angolino più remoto della rete lasciando tutti a bocca aperta. Tutti tranne il portiere, che da quel giorno tenne le labbra serrate e non rise più.

 

La storia di Margherita che fece la dieta del grammo e non sgarrò nemmeno di un milligrammo.

 

“Può tagliarmi 1 grammo di prosciutto crudo?” Chiese Margherita al salumiere. Poi toccò anche al fruttivendolo: “Posso avere 1 grammo di melone?” Entrambi i negozianti le sorrisero pensando a uno scherzo, la sua richiesta era alquanto bizzarra. Ma Margherita non stava scherzando, era seria, aveva appena cominciato la dieta del grammo. Di diete ne aveva provate tante: quella francese delle sole proteine, quella del niente carboidrati, quella mediterranea, quella del solo frutta, quella del via i latticini, perfino quella del cucchiaino di miglio prima dei pasti; si poteva affermare che fosse una vera esperta nel campo, ma mai come questa volta aveva trovato pane per i suoi denti. La dieta del grammo era una sua creazione e aveva una sola regola: mangia tutto quello che vuoi, ma tutto del peso di un grammo. Armata di bilancino di precisione, pesava e ripesava tutto quello che comprava, preparava e mangiava, con una perizia e un rigore che lasciavano esterrefatti, mai uno sgarro, mai una tentazione. Una mattina il salumiere, alla sua solita richiesta, volle rispondere con una battuta: “È 1 grammo e 1 milligrammo, che faccio, lascio?” Margherita, senza scomporsi, rispose di no.

 

La storia della barba del giudice che ricresceva un centimetro preciso al giorno.

 

Il barbiere Pietro della barberia del tribunale non riusciva a farsene una ragione. Le barbe di giudici e avvocati erano ispide e morbide, lisce e ricce, disordinate o contenute solo sulla punta del mento; qualcuno aveva guance lisce come la pelle di un bambino e qualcun altro guance pungenti con i peli irti come gli aculei di un porcospino; ma una barba ostinata e precisa come quella del giudice Guardianello non l’aveva mai incontrata. Lo radeva ogni mattina alle 7 in punto, il giudice ci teneva alla puntualità e al rito: panno caldo, pennello di tasso, pastiglia di sapone, solo rasoio a mano e acqua di colonia inglese, ma quella barba dispettosa ricresceva un centimetro preciso al giorno. Pietro aveva provato perfino a non radere il giudice per una settimana intera, per vedere se la barba avrebbe smesso di crescere, ma quella, manco a dirlo, si era allungata di sette centimetri. Il giudice – che era giudice ma pur sempre uomo – gli confidò che era per colpa di quella barba che la moglie l’aveva lasciato. Pietro non disse niente ma pensò che l’ex signora Guardianello aveva ragione. Va bene una barba ostinata, ma una barba che con la sua ostinazione rende ridicolo un giudice no.

 

La storia della festa del Pi greco a cui parteciparono 314 flute meno 1.

 

314 candele erano state accese, 314 orchidee sistemate nei vasi, i flute – anche quelli rigorosamente 314 – scintillavano allineati sui tavolini. Tutti insieme, visti dall’alto, riproducevano la forma di un grandissimo cerchio perfetto. Era il 14 marzo (in inglese 3, 14) e all’Exploratorium di San Francisco si celebrava il Pi greco, il numero scoperto da Archimede. I matematici e i fisici invitati alla festa provenivano da tutto il mondo e sarebbero arrivati a momenti. Lo sguardo del direttore di sala stava passando in rassegna il salone delle feste, quando inarcò leggermente un sopracciglio. Era un segnale inequivocabile. Aveva visto un errore. I camerieri si controllarono a vicenda: le divise erano impeccabilmente stirate, le scarpe lucide, i capelli in ordine; e anche i secchielli del ghiaccio, le tartine, il caviale, tutto sembrava perfetto. Il sopracciglio del direttore di sala però restava inarcato, e a questo si aggiunse il suo dito indice puntato contro qualcosa. Seguendo la traiettoria del dito, gli sguardi dei camerieri arrivarono sui flute allineati e li contarono: non erano 314, ma 313. Messo alle strette, il cameriere più giovane confessò. L’ultimo flute gli era scivolato per l’emozione e si era rotto.

 

La storia della settima moglie che fece diventare il sultano verde smeraldo di rabbia.

Era il compleanno della settima moglie del sultano, la più bella, giovane e testarda. Solimano il Magnifico Mehmed XXII aveva il cuore gonfio d’amore, e aveva disposto che tutto fosse organizzato al meglio per i festeggiamenti a Palazzo Topkapi. Dolci e rosoli offerti in preziose porcellane cinesi, perle intessute negli abiti delle ancelle, petali dei suoi fiori preferiti in tutte le fontane del Palazzo, musicisti e artisti venuti dall’Europa, nuovi pavoni nei giardini, ma soprattutto una gemma che tutte le donne di Costantinopoli avevano sognato fin da bambine, la stella verde. Per averla il sultano aveva fatto una guerra e perso molti uomini mettendo a dura prova il suo potere. Quella settima moglie lo aveva stregato, dicevano i sudditi quando chiacchieravano al Gran Bazaar, ma lui non se ne curava; e adesso non vedeva l’ora di godersi la reazione nei begli occhi di lei all’apertura della scatola di ambra in cui aveva fatto sigillare la pietra. Aveva vissuto gli ultimi giorni solo nell’attesa di questo momento, aveva contato i minuti. La giovane aveva aperto la scatola, ma poi dopo aver dato un’occhiata distratta alla gemma, aveva sorriso un po’ beffarda e così aveva sentenziato: “Che peccato, il mio colore preferito è il verde, ma di un tono più scuro.”