Nciuria in siciliano non vuol dire ingiuria ma è semplicemente il soprannome che si dà a qualcuno per il suo aspetto, una mania, un difetto fisico, per come parla o come cammina, per una vicenda che l’ha visto fortunato o sfortunato protagonista, per la sua attività lavorativa, per un segno caratteriale e anche perché il padre e pure il nonno erano conosciuti in quel modo. Se in Sicilia, come altrove in Italia, e soprattutto nelle piccole comunità  –  il più delle volte malignamente e solo in rari casi con benevolenza  –  ad alcuni appiccicano la loro ‘nciuria , negli ambienti mafiosi c’è addirittura un’anagrafe parallela a quella ufficiale. Sono moltissimi (per non dire quasi tutti) quelli che l’hanno cucita addosso come un marchio. Serve a cancellare un’identità per costruirne un’altra, rafforza il potere nel gruppo, rende unico  –  e non uno dei tanti  –  il portatore di quel soprannome.

Nei miei taccuini ho sempre annotato le ‘ nciurie dei farabutti o dei loro compari che ho conosciuto o di cui ho scritto fra la Sicilia e la Calabria (di altri ho ricevuto preziose segnalazioni da amici e colleghi sparsi fra la Campania, la Puglia e Roma) e così mi sono ritrovato in archivio una speciale piccola mappa criminale. Dentro ci sono vecchi e nuovi personaggi della mala Italia, noti e meno noti che si sono conquistati il loro soprannome “sul campo di battaglia” o l’hanno preso in prestito più recentemente da personaggi della tivù, del cinema, dei fumetti e anche del calcio. Una carrellata di ‘nciurie in ordine sparso, ovvero il talento del nominare.

Mangialasagna. Assessore regionale ai Lavori pubblici della Regione siciliana in governi di centrosinistra e di centrodestra, fra il 1996 e il 2001. Ex sindaco di Canicattì, Vincenzo Lo Giudice prima e dopo una condanna per mafia è sempre stato considerato un “manciatario”. Gli piaceva mangiare. In tutti i sensi.

Totò Batteria. Gela è terra di nessuno, siamo a metà degli anni Ottanta e nelle strade si spara di giorno e di notte. Cade anche Salvatore Lauretta. Prima di prendersi una fucilata in faccia gli avevano aperto il petto per inserirgli un pacemaker. La piazza ha fatto uno più uno.

Culu musciu. Fa l’imprenditore ed è legato alle famiglie di ‘Ndrangheta di Isola Capo Rizzuto, in particolare agli Arena. Uomo molto sedentario Franco Pugliese, le conseguenze della sua pigrizia si notano soprattutto dietro.

Milinciana. Melanzana, per il colore molto scuro della sua pelle tendente al violaceo. Filippo Marchese, boss di Corso dei Mille che torturava i suoi nemici in quel magazzino di Sant’Erasmo che è diventata la “camera della morte” di Palermo.
Carognetta. Cattivo ma  –  stando ai racconti dei suoi fedelissimi  –  non cattivissimo. Quindi Carmine Montescuro, camorrista napoletano, solo carognetta.

U’ Babbu. All’anagrafe Salvatore Pesce. Quello ritenuto più tonto  –  appunto babbu  –  fra quattro fratelli, tutti mammasantissima della Piana di Gioia Tauro.

Babbu funnuto. Completamente scemo o scemo fuso, come i motori delle automobili. Un po’ perché Pasquale Dimora  –  imparentato con i Caruana e i Cuntrera, sul loro impero criminale non tramontava mai il sole  –  ogni estate tornava nella sua Sicilia, a Siculiana, accompagnato da due bagasce belghe (disdicevole nei circoli mafiosi più ortodossi), un po’ perché aveva un cuore molto malato.

Tè tè. Espressione dialettale barese che indica colui che parla troppo. E infatti Antonio Diomede, per quel suo vizietto è stato fatto sparire. Il suo corpo non è stato mai più ritrovato.

Ciccio Boutique. Francesco Strangio, a capo di una ‘ndrina coinvolta nella strage di Duisburg del Ferragosto del 2007. Ha sempre avuti interessi in negozi di abbigliamento.

U’ Patri Nostru. Medico condotto, direttore sanitario dell’Ospedale dei Bianchi, presidente dell’Associazione coltivatori diretti, fiduciario del Consorzio Agrario. E capomafia. Negli anni ’50 Michele Navarra era tutto a Corleone. Come il Padre Nostro.

Er Cecato. Quello che si definiva con boria “l’ultimo re di Roma”, per troppa presunzione (e per merito di magistrati e investigatori non dormienti come i loro predecessori) fra il dicembre 2014 e il giugno 2015 ha trascinato nei bracci del 41 bis capi clan rossi, neri e verdi. Mafia Capitale comincia con lui, Massimo Carminati, il personaggio che ha ispirato Romanzo Criminale e che più di una trentina di anni fa ha perso l’occhio sinistro durante una sparatoria.

Coriolano della Floresta. È il protagonista di un famoso romanzo di Luigi Natoli alias William Galt, l’autore dei Beati Paoli , opera nelle cui pagine si respira lo “spirito della mafia”. E il cavalleresco Blasco di Castiglione, il misteriosissimo Coriolano della Floresta, capo degli incappucciati di quella setta dei “vendicosi” che terrorizzava i nobili nella Palermo settecentesca, è stato per lungo tempo anche Totuccio Contorno, sicario di fiducia dei Bontate e degli Inzerillo.

Celentano. Alessandro Marcianò, capo sala all’ospedale di Locri e mandante dell’omicidio del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno. Per la sua somiglianza al Molleggiato.

Girogola. Troppo grossa e troppo luccicante per passare inosservata la catena d’oro che ha sempre esibito Nicola Telegrafo, affiliato al clan Strisciuglio del quartiere Libertà di Bari.

U’ Curtu. La spiegazione la dà lui stesso: “Io sono alto 1,61 nella tessera, misurato l’altro giorno al carcere sono 1,59. Se uno dice di conoscermi e poi sbaglia dieci, quindici o sedici centimetri, queste sono accuse infamanti, tragedianti, accuse fuori dal normale. Quindici centimetri per un uomo è come un metro. Scusasse presidente se mi alzo, ecco quanto è alto Salvatore Riina”.

U’ Tratturi. Dove passava lui  –  alla faccia della sua politica criminale di inabissamento e all’intelligenza strategica attribuita a Bernardo Provenzano  –  non restava più niente. Ogni volta che lo vedevano, da lontano sussurravano: “Spara come un dio ma ha il cervello di una gallina”.

‘A Puttana. Così i boss del clan dei Casalesi Francesco Schiavone e Francesco Bidognetti parlavano di Giuseppe Setola, un “collega” che a loro non ispirava molta fiducia.

Ciccio la Busta. Francesco Prudentino era uno dei contrabbandieri più ricchi della Puglia, viveva come una pascià a Budva, nel Montenegro. Prima di diventare il “re delle bionde” e avere al suo servizio il capo della polizia di Bar, Vaso Baosic, gestiva una pescheria a Ostuni dove infilava nelle buste di plastica orate e saraghi.

Manuzza. Cadendo da un trattore, si è fratturato una mano che non è più tornata a posto. Antonino Giuffrè, prima vice di Provenzano e poi pentito, è inevitabilmente diventato manuzza.

Turi Cachiti. Incontri Turi Pillera e te la fai addosso. Così andavano le cose durante la guerra di mafia a Catania trent’anni fa.

U’ Tiradrittu. È sempre stato abile nel maneggiare la pistola Giuseppe Morabito, capo dei capi di Africo, mafia della costa ionica. Un’ottima mira.

Il Vampiro. Prima di finire imputato al maxi processo e rinchiuso all’Ucciardone, Alessandro Bronzini usciva solo di notte.

Cannarozzu d’argentu. In siciliano il cannarozzo è la gola e alla gola Giuseppe Calderone aveva subìto un’operazione che gli aveva leso le corde vocali. Parlava con un apparecchio che rendeva la sua voce metallica. Questa menomazione non gli ha impedito di diventare però il capo della Commissione regionale di Cosa Nostra, fin quando è arrivato Totò Riina e l’ha fatto fuori.

Gambazza. Boss di San Luca deceduto nel 2009, Antonio Pelle era inteso così per via di una ferita alla gamba che lo aveva reso claudicante. L”nciuria è stata poi ereditata dai suoi figli.

U’ Verru. Cioè il porco: Giovanni Brusca, l’assassino di Giovanni Falcone e del piccolo Giuseppe Di Matteo.

‘O Copertone. Dai pneumatici che si bruciano nelle discariche. Ma Vincenzo Schiavone, sicario di camorra, insieme alla gomma dava fuoco anche alle sue vittime.

Il Papa. Fra le sue mani stringeva sempre un Vangelo e due breviari, nella sua cella recitava i salmi, la lode mattutina, dell’ora terza, della nona, i vespri e la compieta che è la preghiera della notte. Michele Greco, mafioso della borgata di Ciaculli, diceva di sé: “Mi chiamano il Papa ma io non posso paragonarmi ai Papi per intelligenza, per cultura e per dottrina. Per la mia coscienza serena e per la profondità della mia fede posso anche sentirmi pari a loro, se non superiore “.

Il senatore. Salvatore Greco, fratello di Michele. Aveva relazioni politiche di alto livello, a Roma.

Il sindaco. Boss del quartiere Ponticelli di Napoli, Ciro Sarno decideva chi poteva o chi non poteva occupare una casa popolare dopo il terremoto dell’Irpinia.

Zio Paperone. Enrico Colucci, contrabbandiere brindisino, trasportava montagne e montagne di soldi nascosti in sacchi neri della spazzatura.

Lo Sciancato. Il primo macellaio del clan dei Corleonesi, Luciano Liggio, zoppicava a causa del morbo di Pott che affliggeva la sua colonna vertebrale.

Rollò. Come quei dolci di ricotta siciliani avvolti nel pan di spagna che fa le pieghe. Proprio come quelle del grande ventre di Giuseppe Orilia, estorsore di Brancaccio, Palermo.

Buriani. Come Ruben, calciatore biondissimo che nel campionato 1978/79 ha vinto con il Milan lo scudetto della stella. Sembrava il suo sosia Vito De Antonis, mafiosetto che seminava il terrore nei vicoli di Bari Vecchia.

Diabolik. Ce ne sono due. Il più famoso è l’ultimo latitante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, ricercato dal giugno 1993 per la strage ai Georgofili e le bombe di Milano e Roma. Il più tifoso è invece Fabrizio Piscitelli, capo ultras della Lazio che governava i traffici di Roma Nord. Entrambi innamorati del celebre criminale a fumetti.

Madre Natura. Gli uomini d’onore di Brancaccio s’inchinavano davanti a Giuseppe Graviano, il capo della loro famiglia e origine di loro stessi.

U’ Ballerinu. A Marcello Pesce, mafioso di Rosarno, Calabria, sono sempre piaciute le discoteche.

U’ Signurinu. Pietro Aglieri, ex seminarista che teorizzava la “dissociazione morbida ” per salvare Cosa Nostra dalla sua scomparsa, ci ha sempre tenuto a vestire bene.

U’ Dutturi. “Bastano una cucina, un paio di bacinelle d’acciaio, un po’ di fuoco e ci vuole anche aria… e questo è tutto”. Così comunicò un giorno ai boss di Palermo che volevano sapere come si lavorava la “pasta” per trasformare la morfina base in eroina. E da quel momento Nino Vernengo diventò il dottore.

U’ Prufissuri. Insegnante di scuola media, Leoluca Di Miceli sembrava destinato a grandi cose dentro la mafia di Corleone. Ma poi non ha fatto carriera, correva troppo dietro alle donne degli altri. Commento dei padrini: “Peccato: ragiona più con la testa di sotto che con quella di sopra”.

Ciccio Spara Spara. Ladro del quartiere palermitano del Borgo Vecchio, ogni volta che s’infuriava tirava fuori la pistola. Ma non ha mai ferito o ammazzato nessuno. E per questo non facciamo il suo vero nome.

Al Cafone. È un potente di Sicilia sottoposto a segretissime indagini antimafia. Arrogante e grossier.

Poi ci sono anche Chiù Chiù e Scintilluni, Scarpa e Scarpazzedda, Pavesino e Plasmon, Maciste, Cappottino e Cappottone, Sandokan, Bingo, La Dama, Kit Kat e U’ Cicchiteddu, Folonari, La Luna, ‘O Talebano, Faccia d’Angelo, Cicciobello e tanti, tanti altri ancora.
Altro che naming della pubblicità, i copywriter della mala sì che sanno il fatto loro.