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La colla, il bisturi e l'arte dei Cow Boys. (Di Daniele Cima)

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cow2LA COLLA, IL BISTURI E L’ARTE DEI COW BOYS.

Tributo a un leggendario studio milanese.

Di Daniele Cima (dal blog di Pasquale Barbella).

http://interpab.blogspot.it/2016/07/la-colla-il-bisturi-e-larte-dei-cow-boys.html

1972. Beppe Mazzetti ha sedici anni e trascorre le sue giornate bighellonando e giocando a carte e a calcio-balilla al bar che è sull’angolo tra viale Montenero e via Spartaco, a Milano. A suo modo è un professionista, gioca e scommette su se stesso con l’obiettivo di mettersi in tasca i soldi per fumare Marlboro e frequentare esclusivamente cinema di prima visione, in centro-città. Ha il pallino della qualità, dell’eccellenza, ama il bello ed è anche un po’ sbruffone, da buon interista. Non è l’inizio della biografia di un delinquente pluri-pregiudicato, ma di colui che avrebbe dato vita al più blasonato studio di artwork d’Italia, i leggendari Cow Boys. Beppe viene strappato al vizio da Aldo Vendrame, titolare dello Studio Executive, situato nell’elegante Foro Bonaparte, al numero 53. È uno studio grafico in cui si realizzano gli esecutivi per la stampa degli annunci pubblicitari, dei poster, dei folder, dei cataloghi, delle locandine eccetera eccetera. Si lavora con strumenti molto diversi da quelli attuali: copie fotografiche su carta, patinate con caratteri tipografici, cartoni Schoeller, righe, squadre, bisturi, Cow Gum, paletta e “caccola”.

Quest’ultima è una palla ottenuta amalgamando le eccedenze di colla Cow Gum: più è grande, più è elevata l’anzianità e il prestigio professionale del suo fortunato possessore. La sua funzione è di ripulire i cartoni Schoeller dalla colla che vi era stata spalmata (con la paletta) in eccesso. Più si pulisce, più cresce la dimensione della caccola. Ogni designer è gelosissimo della sua caccola, talvolta più di quanto lo sia della fidanzata. Beppe piomba in questo ambiente a lui totalmente sconosciuto e ovviamente vi entra dal gradino più basso, dalla camera oscura. È un pianeta senza luce in cui si è rinchiusi dalle nove del mattino fino a molte ore dopo che l’oscurità è arrivata oltre la sua porta. Dentro la camera oscura ci sono quattro lampade da 500 watt l’una, che servono a effettuare le riprese fotografiche di marchi, scritte, caratteri. Quando vengono accese il caldo è tremendo: Beppe lavora a torso nudo, come certi giovani eroi immortalati dalla Riefenstahl negli anni del nazismo.Non ci sono regole, non ci sono orari, non c’è pausa pranzo, non ci sono ridicole norme sindacali: non c’è niente, c’è solo il lavoro, che deve essere fatto in fretta, ma bene, possibilmente meglio. Per fortuna allora il nostro campione non aveva ancora la panza di cui il successivo benessere gli ha fatto dono.

cow1Dopo sei mesi di questa vita, passa tra i designer e comincia a maneggiare il bisturi e le squadre, che nel tempo diventeranno le armi destinate a renderlo imbattibile.

Quattro anni dopo – siamo nel 1976 – arriva allo Studio Executive un altro sedicenne, Filippo Danisi, che ripercorre il medesimo cammino di Beppe, partendo ovviamente dalla cayenna della camera oscura. Anche Filippo proviene dal mondo del gioco, ma di ben altro tipo: lavora da Noè, il più prestigioso negozio di giocattoli della città. È magazziniere e il suo compito – invidiabilissimo – è di testare tutti i giocattoli perché funzionino correttamente, prima di essere consegnati all’acquirente. Anche lui è completamente digiuno di qualsiasi cosa abbia relazione con la grafica e con la pubblicità, e anche lui viene rinchiuso in camera oscura, dove rimane qualche anno a crescere e maturare. Nel frattempo là fuori gli affari prosperano, la pubblicità “tira”, le agenzie per cui lavorano (principalmente la Pubblimarket e la CCP di Dario Mezzano) crescono e così anche i clienti diretti (Beecham, Stanley). Lo studio si trasferisce in via Cosimo del Fante, al numero 2, dove le camere oscure raddoppiano, per cui viene ingaggiato un amico di Filippo, Gianpaolo Ripamonti, detto “il Rosso” (per via dei capelli, non del suo orientamento politico). Il suo lavoro precedente è quello di meccanico, ma è un’attività che male si concilia con la sua temperatura corporea: in officina soffre il freddo e trascorre tutto l’inverno senza mai togliersi il loden. È ben contento di trasferirsi in uno studio grafico: si sente molto più a suo agio nell’accogliente calduccio della camera oscura, che inoltre presenta qualche affinità con l’hobby che da anni condivide con Filippo e con il gruppo degli amici più stretti, tra cui le due ragazze che diventeranno le loro mogli.

Nel tempo libero si dedicano alla scrittura di sceneggiature cinematografiche e alla realizzazione di film veri e propri, di cui sono allo stesso tempo produttori, sceneggiatori, registi, montatori, direttori della fotografia, cameraman, elettricisti e interpreti. Utilizzano camera, proiettore e moviola Super8, materiale comperato a caro prezzo e pagato risparmiando anche dove a prima vista sembrerebbe assurdo risparmiare.

Per qualche anno Filippo e Gianpaolo si sono limitati a mangiare a pranzo solo economicissime patate lesse con il prezzemolo, pensando ai metri di pellicola che, grazie a questo sacrificio, avrebbero potuto acquistare e immaginando come avrebbero potuto utilizzarli. Beppe ha sogni decisamente meno astratti: acquista casa e per riuscire a pagare il mutuo comincia ad avere dei clienti propri. Li gestisce di notte e nei weekend, con l’aiuto di Filippo e Gianpaolo, che si prestano a lavorare gratis per aiutare l’amico. Vengono ricompensati con un’ottima cena da Giannino: a Beppe piace ciò che è bello, ciò che è buono, ciò che è caro (e Filippo e Gianpaolo gradiscono molto: non ne possono più delle patate con il prezzemolo). Nel frattempo anche loro due hanno abbandonato la camera oscura e sono diventati dei formidabili designer. I tre lavorano incessantemente, con energia, passione ed entusiasmo, hanno fame di crescere, di imparare, di migliorarsi e hanno la possibilità di farlo anche grazie agli art director con cui lavorano in quei primi anni: Pierluigi Bachi, Gigi Barbieri, Daniele Cima, Alfonso Costantini, Roberto Fiamenghi, Maria Frediani, Felix Humm, Marco Moschini, Eugenio Patrini.

cow3Sono tutti dei grandi rompiballe, estremamente esigenti, super-pignoli, ma questo rappresenta uno stimolo per i ragazzi dello Studio Executive. Comprendono che proprio il perfezionismo maniacale di questi art director offre loro la fantastica possibilità di affrontare e vincere sempre nuove sfide, di salire sempre più in alto. Felix Humm chiede spostamenti che sono calcolati in cazzini di mosca, una nuova unità di misura inventata dal bravo graphic designer svizzero per indicare una frazione infinitesimale di un millimetro. Anni dopo, per la creazione di tutta l’immagine e la comunicazione delle calzature prodotte da DiVarese (Benetton), da lui stesso battezzate Superleggere, Daniele Ravenna scrive dei testi in stile pseudo-futurista. Un linguaggio che Daniele Cima pensa bene di sottolineare adottando dei lettering ispirati a quelli che, agli inizi del Novecento, venivano utilizzati dai vari Depero, Marinetti, Tzara, caratteri tipografici che non esistono più nei cataloghi di compositori e fotocompositori della fine del secolo.

Si presenta quindi tranquillamente nell’atelier dei maghi dell’artwork con la pubblicazione El llibre dels anuncis (1931-1939) e con la pretesa che tutti i testi (body copy comprese) siano realizzati con caratteri derivati da quelli che ha selezionato tra le pagine di quel preziosissimo volume, che rappresenta una delle sue bibbie tipografiche. Come non bastasse, alcune lettere devono provenire dal carattere A, altre dal carattere B, altre ancora dal carattere C, e naturalmente devono essere uniformate armonicamente tra loro. Il tutto eseguito a mano, visto che siamo in un’epoca in cui il Mac non è ancora comparso all’orizzonte e la parola font non ha alcun significato. Vengono disegnati (a mano, occorre sottolineare) tre alfabeti completi, utilizzati per comporre – sempre a mano, lettera dopo lettera – tutti i testi scritti da Daniele Ravenna, che sono pure lunghetti.

Siamo in un tempo in cui i clienti (non tutti, ma Vittorio Ravà della Benetton sì, per fortuna), comprendono e condividono l’esigenza di distinguere la loro comunicazione anche attraverso la qualità estetica e sono dunque disponibili a investire nella forma. Il risultato è eccellente e di grande soddisfazione; ciononostante Beppe ritiene, probabilmente non a torto, che è in quei giorni che gli spuntano i primi capelli bianchi. Altri, molti altri, avrebbero sacramentato e maledetto tanta pignoleria, di cui non avrebbero capito il motivo, né percepito – e tantomeno apprezzato – la raffinatezza. Per i futuri Cow Boys è una soddisfazione, un motivo di orgoglio, invero più che legittimo. Mai un lamento, mai una protesta, mai un vaffanculo e, soprattutto, mai un no. Si può fare qualunque cosa, se lo si vuole. Si accorgono di essere quello che sono, degli assi. A Gianpaolo viene regalato il suo leggendario bisturi d’oro, l’equivalente di un oro olimpico. Hanno in mano i maggiori clienti dello Studio Executive e chiedono di avere più spazio, più responsabilità, più coinvolgimento. E anche più soldi, of course. Sono ambiziosi, soprattutto Beppe, che ha sempre in testa idee e obiettivi che chiunque altro probabilmente considererebbe irraggiungibili.

In un primo momento Vendrame sembra volerli accontentare. Una sera vanno tutti insieme al ristorante, fidanzate comprese, a festeggiare l’accordo che pare soddisfare le loro richieste. Sembra fatta, ma ahimè il giorno successivo il boss ci ripensa. A quel punto Beppe e Filippo decidono che è venuto il momento di lasciare e di iniziare una nuova avventura tutta loro, che iniziano a ipotizzare. Vendrame intuisce l’imminente addio e, per parare il colpo e stabilizzare lo studio, punta su Gianpaolo e gli offre ciò che pochi giorni prima aveva rifiutato a Beppe e Filippo, chiedendogli in cambio una sorta di giuramento di eterna fedeltà allo Studio Executive. Il Rosso è un campione anche di onestà, non se la sente di impegnarsi, visto che in realtà la sua ambizione è di riunirsi a Beppe e Filippo, non appena la loro costituenda società avesse spiccato il volo (e le prime fatture). Deluso e offeso, Vendrame lo licenzia in tronco. Beppe e Filippo intervengono in difesa del loro amico, ottenendo di essere licenziati anch’essi lì, così, su due piedi.

Il 7 febbraio 1984, alle 18.15, i tre sono sul marciapiede di fronte al civico 2 di via Cosimo del Fante, con alcuni sacchetti neri abitualmente destinati alla raccolta dell’immondizia, in cui hanno deposto le poche cose personali da portare via. Inutile dire che il progetto di creare un loro studio subisce una velocissima accelerazione. Chiamano Luciana Gobbi (che successivamente diventerà la prima cowgirl) alla Pubblimarket per proporre di continuare la collaborazione con l’agenzia, lo stesso fanno con la neonata RSCG (oggi Havas) di Dario Mezzano, che già lavorava con Filippo ai tempi della CCP. Beppe invita a pranzo Daniele Cima al Porto: ha le tasche vuote, ma non lo considera un buon motivo per rinunciare alla sua istintiva grandeur. Il nuovo direttore creativo della Troost, dove si è appena trasferito portando con sé dalla Pubblimarket gli art director Pierluigi Bachi, Gigi Barbieri e Felix Humm, oltre alla copywriter Sandra Dal Borgo e ad altri copy di diversa provenienza (Silvia Erzegovesi, Alberta Schiatti, Enzo Sterpi), non esita ad affidargli il lavoro della sua nuova agenzia. Siamo già nell’epoca in cui la corruzione comincia a serpeggiare per Milano, ma quelli che dì lì a poco saranno i Cow Boys non hanno bisogno (né intenzione) di versare mazzette e regalare orologi d’oro: è (e sempre sarà) esclusivamente la qualità loro e del loro lavoro a generare il business. In ogni caso, non ci sono le risorse per acquistare le attrezzature grafiche di base, figuriamoci se ci sarebbero soldi per convincere qualche eventuale mariuolo di craxiana memoria.

Beppe ha 27 anni, Filippo ne ha 22, come il Rosso: sono i loro genitori – certamente non milionari – a vuotare i salvadanai e anticipare i soldi necessari per le prime spese. Per poter avviare la loro attività, Beppe e Filippo rinunciano a qualunque guadagno personale, ma garantiscono a Gianpaolo lo stesso stipendio che percepiva allo Studio Executive. Dopo un lungo tira e molla con la proprietaria, che non si fida mica tanto di quei tre giovani spiantati, viene affittato un ufficio in via Marcora 6, a cento metri dalla Pubblimarket. La nuova società viene chiamata Well Done, su suggerimento di Renata Prevost. Il marchio e l’immagine sono creati da Felix. Sempre prima classe, come vuole Beppe. Si stanno realizzando dei finished layout per una presentazione Gucci che la Troost sta preparando. È una gara, importantissima per segnalare al mercato la svolta creativa in atto in agenzia.Si inizia a lavorare come matti. Un ricordo descrive appropriatamente la situazione.

Tutti gli art director dell’agenzia (Bachi, Barbieri, Cima e Humm) hanno studiato delle proposte che, visto il cliente, presentano soluzioni grafiche particolarmente raffinate, quindi anche particolarmente complicate da realizzare. È sera, è tardi, tutti hanno fame. Cima va a comperare delle pizze take away alla pizzeria di via Parini (il cui cameriere è il protagonista del celebre spot del pennello Cinghiale), ma al suo ritorno ci si rende conto che lo studio è sprovvisto di qualunque strumento utile a mangiare civilmente. A questo punto le pizze vengono tagliate con i bisturi e mangiate selvaggiamente nei cartoni in cui sono state confezionate. Ora si può andare avanti per tutta la notte: che importa?

Quattro mesi più tardi lo studio Well Done ha come clienti tutta la Pubblimarket, tutta la RSCG, tutta la Troost e deve già ingrandirsi: arrivano Guido Manzotti e Antonio Russo, due bravi designer con cui Beppe, Filippo e Gianpaolo hanno già lavorato allo Studio Executive. Mirella Scimone, fidanzata (e in seguito moglie) di Filippo, dà una mano con l’amministrazione, che l’anno successivo viene affidata alle solide mani di Luciana Gobbi, dove da allora risiede.

Il cocktail di alta qualità, disponibilità, efficienza e rapidità funziona a meraviglia: gli art director sono felici di lavorare con gente così competente e appassionata, con designer dotati di un occhio e di una sensibilità fuori dal comune, persone che conoscono a memoria centinaia di caratteri, che sanno come usarli, quando usarli e quando non usarli, persone che conoscono tutti i trucchi e tutte le insidie dell’arte grafica. Anche i responsabili della produzione sono contenti di avere per interlocutori dei problem solver, della gente che in vita sua non ha mai pronunciato la frase non si può. E pure i copywriter se ne compiacciono, perché i loro testi risultano impaginati bene, ben leggibili, con gli a-capo giusti, privi di errori.

Per quelli che di lì a poco si chiameranno Cow Boys i testi sono un’altra fonte di crescita e miglioramento: sanno di essere fortunati a poter maneggiare parole scritte da alcuni dei migliori copywriter dell’epoca, tra cui Borsani, Casiraghi, Costa, Del Bravo, Mignani, Neuburg, Prevost, Ravenna, Rumi…

Beppe e Filippo hanno l’abitudine di leggere tutti i testi prima di passarli alla composizione, e dedicano a questa attività molta attenzione, tanto da essere in grado di riconoscere subito lo stile di questo o di quel copywriter, arrivando anche a scommettere sull’identità dell’autore di questa o quella body copy. Sanno che le parole sono una componente fondamentale della pubblicità (soprattutto in quegli anni) e le assecondano componendole e impaginandole con la massima cura. Non sono ancora i tempi in cui una macchina elabora graficamente (molto male, in genere) un testo. Le patinate con le body copy vengono incollate sugli Schoeller e poi affettate con il bisturi e spaziate/interlineate a mano, per ottenere sul lato destro – a “righe libere” – un andamento armonico, senza “buchi”.

Sono tempi in cui, per ottenere un risultato graficamente equilibrato, i copywriter sono spesso chiamati a modificare qualche parola, ad aggiungere o togliere un aggettivo. Inoltre la composizione di un testo può variare con il variare del formato della testata, in modo da occupare lo spazio nel modo più funzionale.

Alla ricerca dell’equilibrio perfetto, gli art director trascorrono giornate intere nello studio di via Marcora: con infinita pazienza gli elementi dell’esecutivo vengono millimetricamente spostati a destra, a sinistra, alzati, abbassati, rimpiccioliti, ingranditi, riproporzionati; le spaziature e l’interlineatura dei caratteri vengono ridotte, aumentate, le immagini vengono stampate in una misura maggiore, minore, ancora uno zic più piccola… È una lunga, complessa e incessante sperimentazione quotidiana per cercare di raggiungere un’utopica perfezione grafica.

Raffinatezze che oggi si sono completamente perse, nell’imbarbarimento grafico che si è improvvisamente diffuso grazie alla “democratizzazione digitale” da tanti tanto amata. La verità è che le sofisticate tecnologie di oggi in realtà sono strumenti primitivi che – quando non sono gestiti da mani più che esperte (cioè quasi sempre) – producono risultati grossolani, ignoranti, rozzi: inguardabili, per chi ha un occhio educato alla raffinatezza compositiva della migliore grafica.

Il 16 ottobre 1985 lo studio diventa una srl e assume il nome Cow Boys, ovviamente riferito alla colla che è l’elemento imprescindibile nella realizzazione dei paste-up e che rappresenta simbolicamente anche la coesione e il legame profondo che esiste tra i membri dello studio, una compattezza che, a dare retta all’iconografia cinematografica, appartiene di solito ai commando dei Navy Seals. Il nuovo nome nasce dalla penna di Daniele Cima, è entusiasticamente condiviso da Marco Mignani ed è realizzato graficamente da Gigi Barbieri.

I Cow Boys sono lanciatissimi, il mercato è in forte espansione e la RSCG è in una fase di espansione ancora più forte. L’agenzia di Dario Mezzano, Marco Mignani e Alfonso Costantini vola e tutto ciò che entra inevitabilmente finisce sui tavoli dei Cow Boys. Ed è tanta roba: Air France, B&B Italia, Braun, Burghy, Citroën, Club Med, Ferrarelle, Foxy, Honeywell Bull, Illy Caffè, Lindt, Moulinex, Palmera, Peugeot, Philips, Piaggio, Saiwa, TDK, Telecom, Vichy, Voiello, Zucchetti. Una lunga lista di art director della RSCG frequenta il nuovo e grande atelier dei Cow Boys di via Sacchi, proprio sul confine di Brera, la zona degli artisti: Jamie Ambler, Silvia Boretti, Max Fortuna, Mauro Galbiati, Lucio Losi, Tiziana Mariani, Maurizio Matarazzo, Dario Mondonico, Primarosa Pisoni, Francesca Pratesi, Paolo Tonelli, Gianpietro Vigorelli. Filippo fa la spola con l’ufficio di Alberto Civati, capo della produzione dell’agenzia, portando con sé tonnellate di cartoni Schoeller trasformati in esecutivi.

Molti altri art director di altre agenzie cominciano ad avvalersi della collaborazione dei Cow Boys, la cui fama è ormai conosciuta in tutta Milano: tra questi Stefano Colombo, Carla Della Beffa, Michele Goettsche, Loris Losi, Lorenzo Marini, Bruno Milano, Lele Panzeri.È di quel periodo un episodio significativo dell’attenzione che viene posta in ogni dettaglio del lavoro. Siamo in via Carducci 26, prima sede della RSCG. Sul pavimento del cortile Filippo sta montando 24 fogli A3 per comporre in dimensione naturale la headline di un’affissione 6×3 per i succhi di frutta Derby, mentre alla finestra del terzo piano Mignani, Mezzano e Costantini sono intenti a bisticciare con Gianpietro Vigorelli a proposito della leggibilità del carattere e del corpo da lui scelti. (Per la cronaca fu ritenuto poco leggibile, Filippo dovette ingrandirlo e Vigorelli si incazzò da bestia).

Nel frattempo Daniele Cima cambia agenzia più volte, ma non cambia mai lo studio che realizza i suoi sofisticati artwork. Lasciata la Troost apre la sua Milano (Italy), dove viene raggiunto da Daniele Ravenna e Stefano Longoni. Successivamente l’hot shop viene ceduto alla Verba DDB, che va ad allargare ulteriormente il parco di agenzie nel portafogli di Beppe, Filippo & C.

La crescita dei loro clienti avviene per contagio. Quando un art director lascia un’agenzia servita dai Cow Boys se li porta appresso nella nuova agenzia in cui si trasferisce, considerandoli una propria indispensabile appendice.

Avviene così che Agostino Toscana, quando segue Pasquale Barbella dalla Bozell alla BGS, porta con sé i campioni del paste-up, replicando anni dopo, quando dalla BGS si trasferisce alla Saatchi & Saatchi.

È così che Jonathan Padfield introduce i Cow Boys alla Universal e lo stesso meccanismo si attiva con Marco Ravanetti e la Canard, con Giovanni Porro e la Roberto Gorla & Associati, via via fino ai giorni nostri, con Roberto Pizzigoni che, tra i tanti, sceglie proprio i Cow Boys quando nasce la sua Cernuto Pizzigoni & Partners.

L’atelier grafico dei Cow Boys continua a crescere. In quegli anni arrivano Roberto Arsuffi, Daniele Bertoletti, Franco Boschin, Barbara Bucciante, Umberto Galli, Giuliana Guffanti, Michele Jannone, Roberto Pirovano. Nel frattempo i ragazzi che anni prima erano stati lasciati per strada dallo Studio Executive si sono sposati, hanno fatto figli, comperato casa (e anche la Harley Davidson) e compiuto tutti quegli atti che fanno parte della vita delle persone a cui le cose vanno bene. E in effetti le cose vanno davvero molto bene. Giustamente, perché questa è una storia di persone concentrate sul lavoro, che attraverso il lavoro, il lavoro e ancora il lavoro, sono riuscite ad ottenere tutto ciò che la vita in partenza aveva loro negato. Attraverso un lavoro che non ha mai – neppure per un attimo – rappresentato un peso, una scocciatura, un fastidio. Un lavoro da autentici artigiani, silenzioso, sotto traccia, svolto con passione e dedizione, quasi affettuosamente. Potrebbero adottare uno dei più riusciti motti ideati da Henry Ford: Quality means doing it right when no one is looking.

Nel 1990 arriva la svolta che cambierà la loro vita, così come quella di tutti coloro che hanno a che vedere con la comunicazione, cioè praticamente tutti gli abitanti della parte industrializzata (ma non necessariamente civilizzata) del pianeta. Marco Ravanetti della Canard, art director da tempo convertitosi alla religione digitale, stuzzica la curiosità di Gianpaolo, che comincia ad annusare il computer. Organizza una prima lezione pratica per lunedì 10 dicembre 1990, ma all’ultimo momento la diserta. Un ripensamento? No, quel giorno nasce suo figlio Luca.

Gianpaolo assume il ruolo di avanguardia tecnologica dei Cow Boys, che cominciano a introdurre gradualmente l’uso del Mac, realizzando degli esecutivi con tecnica mista: testi autoprodotti con il computer ma stampati tradizionalmente su carta patinata e incollati sugli Schoeller con riga, squadra, Cow Gum, paletta e, naturalmente, caccola. In questa fase il vantaggio di utilizzare il computer si traduce nel poter realizzare in house tutte le componenti di un esecutivo, non dovendo più dipendere da servizi esterni. Nasce allora il loro catalogo di typeface, che con il tempo si andrà arricchendo di sempre nuove golosità tipografiche.

I computer vengono acquistati – nessuno si ricorda perché – presso una società di Napoli. Quando gli scatoloni arrivano a Milano, in studio si diffonde il sospetto che si tratti di una classica sòla napoletana, che le scatole siano piene di vecchi mattoni, non di nuove e sofisticate tecnologie. Per fortuna non è così: ora i Cow Boys hanno i loro primi Mac FX. È il principio della visione strategica che si concretizzerà negli anni a seguire: ampliare il servizio per proporsi al mercato come un unico interlocutore in grado di offrire il massimo della qualità in tutte le fasi produttive dei materiali stampati destinati alla pubblicità.

Michele comincia a sbirciare quello che fa Gianpaolo al computer e di lì a poco diventerà il secondo cowboy digitale. Tempo dopo, sarà Beppe a mettersi a sbirciare, ma impiegherà anni e anni per capirci qualcosa… Tra il 1991 e il 1994 lo studio si evolve completamente, abbandonando progressivamente gli strumenti tradizionali a favore della nuova tecnologia. Viene però mantenuto lo stesso spirito artigianale: il Mac non è visto come strumento per ottenere maggiore efficienza, ma maggiore qualità. Potendo realizzare internamente le varie componenti dell’artwork si riesce a trasferire in ognuna di esse quell’attenzione e quella conoscenza che sono la caratteristica dello studio.

Indubbiamente la rivoluzione digitale porta anche dei benefici in termini di compressione dei tempi e dei costi, ma allo stesso tempo produce un generale abbassamento qualitativo: gli artwork, come del resto le giacche, i pantaloni e le camicie, sono più raffinati se realizzati artigianalmente piuttosto che industrialmente. A questo scadimento Beppe, Filippo & Co. si oppongono fermamente, riuscendo a miscelare in giuste dosi la tecnologia contemporanea con la loro antica conoscenza dell’arte grafica. Per riuscire in questo intento, nel triennio 1991/1992/1993 lo studio di via Sacchi rimane praticamente sempre aperto, giorno e notte.

Come l’acquisto di un superscanner da 18 milioni di lire, praticamente mai utilizzato, o come l’incubo chiamato in codice “Errore 70”, che comporta la immediata, irrecuperabile, cancellazione del file cui si sta lavorando, magari da una settimana, come nel caso di un disgraziato catalogo Swatch.Di giorno si realizzano – con il rassicurante e ben conosciuto vecchio sistema manuale – gli esecutivi urgenti, in modo che procedano senza le sorprese che una nuova tecnica potrebbe riservare. Terminato questo lavoro, si scende tutti quanti a cena da Emilia e Carlo, il ristorante (niente male) proprio sotto lo studio, per poi risalire e tirare mezzanotte impostando sui computer i lavori del giorno successivo, con tranquillizzanti margini di tempo, sufficienti per rimediare ad eventuali errori, o per risolvere problemi nati dall’inesperienza.

Alla fine del 1994 termina l’era della Cow Gum, vengono smontate le tre camere oscure e pensionate righe, squadre e tutti gli amati strumenti che per vent’anni hanno accompagnato la vita di questi ragazzi diventati adulti respirando il buon (ma non tanto salubre) odore della celebre colla spalmabile. Anche in questo scenario completamente nuovo, i Cow Boys mantengono la leadership qualitativa: il lavoro risulta perfetto solo se nasce in un ambiente perfetto. Dunque nuove attrezzature, nuove modalità operative e la consueta, ostinata vocazione per l’eccellenza.

La ABC è l’azienda numero uno nella realizzazione degli impianti per la stampa, i Cow Boys sono lo studio numero uno per la produzione di esecutivi grafici: difficile ipotizzare un matrimonio migliore. Che viene celebrato nel gennaio 2000. I nostri si trasferiscono nella palazzina di via Alamanni (traversa di via Ripamonti) dove ha sede la ABC, dove si sta costituendo un vero polo per la produzione di tutto ciò che attiene alla stampa e dove, uno dopo l’altro, arrivano nuovi cowboys, che non si chiamano John Wayne, ma Michele Dabrescia, Cristina Di Mauro, Claudia Filippi, Laura Galliena, Francesco Marinetti, Barbara Vaiani, Edoardo Vaini.Nel 1999 si inizia a parlare con i titolari della ABC per costituire quell’unica centrale poli-funzionale che da qualche anno Beppe e Filippo hanno in mente. Basta con l’appaltare all’esterno alcuni processi della produzione grafica, tutto deve essere realizzato internamente, à la Cow Boys.

Oltre ad ABC e Cow Boys, nella nuova palazzina troviamo l’agenzia Joblines, la web agency BBJ, lo studio fotografico di Jacopo Cima, il fotoritoccatore e illustratore Graziano Ros.

La strategia è perfetta, il rapporto con il partner mica tanto. Beppe è insofferente, non è abituato a confrontarsi con opinioni diverse dalle sue; oltretutto quelle dei suoi soci della ABC sono davvero diverse e lui non è il tipo capace di deglutire qualcosa che non lo convince. Da trent’anni lui e Filippo indossano lo stesso paio di occhiali e vedono lo stesso orizzonte. Mai una discussione: del resto di cosa dovrebbero mai discutere, se negli occhi hanno lo stesso sogno? Evidentemente anche negli affari non di cuore la crisi si manifesta al settimo anno: il 1° aprile 2007 l’unione tra ABC e Cow Boys ha fine.

Si ricomincia.

Pronti, via, sempre con la solita determinazione, sempre con le idee chiare sul progetto che si ha in mente, sempre con la solita grandeur che risiede nel dna di Beppe. Vagamente si replica quanto avvenuto trentatré anni prima, ai tempi del divorzio dallo Studio Executive, anche se meno traumaticamente, meno bruscamente, meno avventurosamente. Per un breve momento il Rosso teme di essere licenziato, per la seconda volta, per la stessa ragione. Ora ne ride, allora un piccolo brivido lo ha percepito. Nuovamente Dario Mezzano affida a occhi chiusi a Beppe e Filippo il lavoro della sua agenzia, per la gioia di Giovanni Porro, suo direttore creativo.

Viene acquistato (senza bisogno dei risparmi dei genitori, questa volta) un bellissimo spazio all’interno dello storico complesso dell’ex-Richard Ginori, appena riqualificato. 350 metri quadri lungo il Naviglio Grande, che è possibile reinterpretare secondo il gusto e le esigenze dell’acquirente. I vicini di casa si chiamano Adidas, Amadeus, Boggi, Geox, G-Star Raw, Hugo Boss, Mason’s, Rondinella. Michele per qualche settimana torna al suo antico lavoro di installatore di serramenti e appronta velocemente il nuovo studio, che diventa operativo nell’ottobre di quello stesso anno. Tutto ciò che è contenuto nella fiammante sede di via Morimondo è nuovo di zecca: un investimento colossale per uno studio grafico, parliamo di una cifra terribilmente vicina ai 300.000 euro, ottenuti anche grazie alla garanzia sottoscritta da Stefano Righetti della Hyphen, la società che ha fornito al nuovo studio il miglior supporto tecnologico esistente sul mercato e che crede (e investe) nella ripartenza di questi ragazzi con i capelli diradati e imbiancati. Il meglio: una costante della storia dei Cow Boys, una scelta obbligata per chi ha le ambizioni che abitano nelle teste di Beppe e Filippo. Ambiziosi ma rigorosi, molto rigorosi: la società Cow Boys srl non ha pagato in ritardo un solo stipendio, anche di un solo giorno, nemmeno una sola volta. Precisissimi nel realizzare il loro lavoro, precisissimi nel rispettare i loro impegni.

Alla nuova avventura di Beppe e Filippo partecipano i soliti fedelissimi: Roberto Arsuffi, Daniele Bertoletti, Lodovico Bossi, Cristina Di Mauro, Luciana Gobbi, Michele Jannone, Mattia Mazzetti, Gianpaolo Ripamonti, Edoardo Vaini. È un team che esprime differenti e molteplici capacità, con il quale i Cow Boys possono proporre quel servizio di produzione a 360° allineato alle esigenze del mercato, ma abbinato alla loro caratteristica abilità artigianale che, attraverso l’esperienza maturata in ABC, si è ormai estesa anche alla realizzazione degli impianti per la stampa.

Nel 2011 la società Cow Boys srl compie venticinque anni. Con l’aiuto dell’art direction di Daniele Cima la ricorrenza viene celebrata realizzando venticinque opere grafiche che utilizzano un solo elemento visivo, il numero 25. Venticinque opere grafiche per dimostrare quante possibilità espressive possono nascere da un tema così circoscritto e così poco eccitante, venticinque acrobazie grafiche realizzate utilizzando esclusivamente i pochi strumenti di cui dispone la grafica d’autore: caratteri, linee, colori.

Less is more, una filosofia cui può permettersi di aderire solo chi da quel poco è capace di ricavare il massimo e forse anche qualcosa in più. Campioni, affermati, indipendenti e felici: i Cow Boys oggi sono esattamente quello che quarant’anni prima Beppe e Filippo sognavano di essere, con la quasi certezza che però si trattasse solo di un sogno.