fav vate.

Pensieri a 150 anni dalla nascita di Gabriele.

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gabriele2Poeta-soldato, dandy figlio dell’Adriatico, ha cavalcato (e invertito) storia e leggenda. L’arte di essere D’annunzio – di Aurelio Picca. 

La storia, letteraria e non, d’Annunzio l’ha molto lapidato. Era inevitabile se uno non crede, in arte, al primato della leggenda. Siccome Gabriele d’Annunzio – nato il 12 marzo 1863, giusto 150 anni fa – è stato con un piede di qua e uno di là, tanto peggio; magari a vantaggio di tomi vergati di pettegolezzi e aneddoti. È stato sempre complicato accettare che un omino alto un metro e sessantadue centimetri, con il sedere un po’ grosso, l’addome uccellesco, le braccia troppo lunghe, una incipiente calvizie, un accento abruzzese che neppure le frequentazioni con Debussy riuscirono a cancellare, dunque provinciale di Pescara, per giunta con i denti guasti, si ergesse a poeta-soldato, a sceneggiatore di film erotici, a scrittore post-verghiano e dandy compulsivo, sciupafemmine e amante di Eleonora Duse, la donna con il volto velato che, nello studio del Vittoriale dai legni chiari e dalla porta inventata come il giogo romano, fa da musa ispiratrice. Era ed è difficile incollare la sua amicizia con Guido Keller alle pagine del Notturno. Ci sarebbe voluto un briciolo di luna in testa, cioè di follia, per capire che il d’Annunzio diPrimo Vere e Andrea Sperelli sono uno e indivisibile, eppure prisma; non è stato scontato per decenni accettare, e magari amare, che i Canti della guerra latina fossero di colui che scrisse le Laudi. Neppure Guido Gustavo Gozzano, cresciuto nel giardino torinese del melo, con la sua tisi, il suo dannunzianesimo vintage, con l’innamorata Amalia Guglielminetti che tenta di scaricare a vantaggio degli amici, e non di tenere al pianoforte di Gardone come la Luisa Baccara, aiuta ad ammorbidire i toni sulle contraddizioni del Vate e le varie «Beffe» e il volo su Vienna e le arringhe ai soldati sull’Isonzo e gli isolamenti di Francavilla dove scrisse Il piacere.

Storia e leggenda egli le ha calzate e scambiate di ruolo. Ma sappiamo che la storia lascia eredi con nome e cognome, mentre la leggenda si incontra per empatia, oppure per affinità. Forse perché il poeta di Rimini, Urbino, Lucca, Assisi, Carrara, Bergamo, Ravenna, Volterra… (Le città del silenzio: per dire come l’Italia è sfarzo non di cento campanili ma di mille Capitali) l’ho incontrato per caso, ora mi tornano in mente frammenti galleggianti nell’unico mare possibile: l’Adriatico.

D’Annunzio amava le cravatte nere come Enrico Cuccia; a Fiume, nel «Natale di sangue» del 1920, sotto il cannoneggiamento del governo italiano, ha ancora il coraggio di ordinarne «due dozzine». D’Annunzio al Cicognini di Prato fu un discolo. La Capponcina di Settignano a Firenze dovrà essere abbandonata (per debiti) come un’opera incompiuta. È vero: a Fiume comandava, attraverso «il compagno» che sapeva parlare «all’aquila» (Keller), gli Arditi e i Disperati della Disperata che, non avendo niente da perdere e da fare, bighellonavano tutto il giorno tra i cantieri navali deserti. Si tuffavano dalle gru, usavano cocaina; erano bestie e bimbi, sembrano uscire da quadri di De Pisis e Gian Marco Montesano; poi marciavano a torso nudo per le vie della città; infine, presso La Torretta, una località remota, giocavano alla guerra, lanciandosi addosso bombe a mano.

L’«Orbo veggente», nella baia di Buccari (Bakar), a cavallo di un motosilurante (Mas), lasciò tre bottiglie ornate di nastri tricolore contenenti messaggi appunto beffardi contro il nemico. D’Annunzio, ricordavo, l’ho incontrato già da dodicenne sui luoghi che poi gli sono stati cari: Trieste. Da ragazzino la vidi dama cicatrizzata, con una luce non accecante, tipo vuota e estiva, bensì bianca e spessa come imbalsamasse persone, palazzi, bagnanti, strade e mare. Nel Notturno il pescarese scrisse: «Trieste laggiù come una forma di luce».

Per uscire dall’incantamento dei frammenti, ho sempre sostenuto che La pioggia nel pineto sia il terzo grande Canto della poesia italiana di sempre. Canto notturno di Giacomo Leopardi è una corsa ciclistica di uno sconfitto dalla malignità della natura; Dei Sepolcri di Ugo Foscolo: l’inno eroico e fallocentrico contro la morte. Il canto di Alcyone, invece, è una musica fatta di acqua. Pioggia che snoda piante e corpi. Composizione di gocce. Acqua di mare dove Ermione è ermafrodito ma soprattutto madre. È la nostra madre poetica.

Quando molti anni fa andai in visita a Gardone e al Vittoriale, la dimora di d’Annunzio non mi colpì né suggestionò rispetto alla eccentricità del bagno Blu, oppure della stanza del Mappamondo, della Cheli, della Musica, della Leda, della Zambracca. Non rimasi sbalordito da tanto spazio (in realtà piccolo se si pensa alle ville dei divi di Hollywood), colmo di una foresta di idoli, ex voto, calchi, tappeti, libri, boccette e penne di Buccellati e testa di aquila di Renato Brozzi. Mi parve di intuire, invece, che in quei corridoietti bui o sentieri scavati tra quintali di reliquie, feticci e masserizie varie, scodinzolasse non il poeta-guerriero-romanziere-politico-aviatore-marinaio, bensì un topolino con un occhio pettinato, come truccato, che si segrega nelle stanze per rosicchiare concentrato e assorto il cadavere di sua madre.

Ma fu quando osservai nei giardini lo specchio del lago di Garda che capii meglio. Il Garda era identico all’Adriatico. Il mare lunare, femminile,materno, stagnante e «musicale» quanto il liquido amniotico. Il mare dell’alba, dunque della nascita. Il mare da dove principia il giorno, la luce.

Gabriele d’Annunzio, prima di puntare la prua della nave Puglia a est, dunque verso il mare della Madonna di Loreto (pensate alla narrazione che indica nella basilica la casa in muratura della Vergine approdata al di qua dell’Adriatico, «per ministero angelico»), non sapeva il perché cercasse una casa sul Garda dopo il ripiegamento di Fiume. Lasciando Venezia, prima di acquartierarsi con un centinaio di reduci presso il Grand Hotel Gardone, al suo segretario Tom Antongini disse: «Attribuisco a te il lago di Garda, perché sento che è là che il mio destino mi spinge ad abitare». Dunque Garda come Adriatico. Acqua per sempre. Perché materna e vitale.

La pioggia nel pineto è il Canto d’acqua, con Ermione sacerdotessa. È il canto-manifesto di una gioia per la vita che non abbandonerà mai il poeta. Neppure in Maia (Laus Vitae): «O Vita, o Vita,/ dono terribile del dio,/ come una spada fedele,/ come una ruggente face,/ come la gorgóna,/ come la centàura veste;/ o Vita, o Vita,/ dono d’oblìo,/ offerta agreste,/ come un’acqua chiara,/ come una corona…». In Per i morti del mare, addirittura, l’abruzzese pretende che l’acqua trattenga i cadaveri, pensi lei a custodirli, a non riconsegnarli alla terra perché il suo ventre possa mantenerli in vita. L’irriquietezza o l’umoralità del mare è vita che infonde vita anche ai morti.

Ho riflettuto a intermittenza su questo tema. Però il saggio non l’ho scritto. Resta il rossore di vedere tanti antidannunziani in dieta compulsiva (È inutile lamentarsi sopra una tomba…), pensando a poeti e scrittori «adriatici» coevi o venuti dopo (Svevo, Berto, Parise, Comisso, Flaiano, Zanzotto) che hanno nuotato nell’acqua, nella gioia del ventre materno.