fav penne.

Pasquale Barbella e David Abbott.

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chivasPasquale Barbella racconta i testi di David Abbott.

http://interpab.blogspot.it/2016/05/abbotts-list.html?view=timeslide

Il testo pubblicitario più istruttivo e toccante che io ricordi non è stato scritto né per Amnesty International né per la Croce Rossa, né per la Chiesa Cattolica né per l’Unesco. È stato ricamato per una marca di scotch whisky, Chivas Regal, nel 1980. L’autore si chiamava David Abbott.

Temo che le leggi e i regolamenti vigenti non consentano ai maestri delle elementari e agli insegnanti delle medie la lettura e il commento in aula di A papà, il testo di cui sto parlando. Peccato. Perché, prima ancora di essere una lezione di copywriting, è un bell’esercizio di pensiero e scrittura, di intuitiva e immediata efficacia. Ed è anche un saggio di gratitudine filiale sincero e trasparente, depurato da ogni affettazione retorica e da ogni luogo comune.

Come tutti i pubblicitari adulti ricordano, era una doppia pagina concepita per la festa del papà, una di quelle periodiche occasioni commerciali che rendono felici i produttori di cravatte, borse, portafogli, acque di colonia e cinture. Che altro si può regalare a papà? Certo, va benissimo anche del vino o – perché no? – un superalcolico, se babbo non propende all’etilismo e alla cirrosi. Per la réclame è ordinaria amministrazione; sono in pochi a sperare che con una promozioncina da 19 marzo si possa diventare famosi. Ma Abbott era tutto fuorché un reclamista ordinario. Rileggiamo cosa ha scritto:

Vediamo. Dal punto di vista concettuale è un bel colpo. Abbott sposta lo sguardo dall’esterno (mercato, oggetto, prezzo) all’interno (l’autenticità dei sentimenti). Non guarda quella bottiglia né con gli occhi del produttore, né con quelli del venditore, né con quelli del pubblicitario, né con quelli del potenziale acquirente; ma con occhi da figlio. Non impartisce istruzioni d’acquisto o di consumo. Non spiega perché dovresti regalare al tuo vecchio quella marca di whisky; spiega perché avere un buon padre è un dono inestimabile, e perché – se ne hai uno che ti ha dedicato tanto – faresti bene a non dimenticartene. La particolare emozione evocata da tutti quei “perché” si chiama, in gergo professionale, insight.

Captato un insight di tale elementare potenza, la scrittura procede con la fluidità e la libertà proprie degli elenchi. Come nella poesia Se di Rudyard Kipling, o nella canzone Quelli che di Beppe Viola ed Enzo Jannacci. E credo che non esista struttura più fertile di quella elencativa per allenarsi o allenare altri alla scrittura. Una scolaresca di prima media potrebbe imitare e prolungare ad libitum lo schema suggerito da Abbott, facendo a gara nell’esposizione dei motivi per cui papà meriterebbe un regalo nel giorno di San Giuseppe.

Le scarne notizie biografiche riservate agli autori di avvisi pubblicitari ricordano, di sfuggita, che David non era riuscito a laurearsi: aveva dovuto abbandonare gli studi universitari per prendersi cura del padre malato di cancro. Il gossip non c’interessa, ma non si può fare a meno di collegare questo flash di vita privata all’annuncio Chivas. E qui si potrebbe aprire un lungo discorso sulle corrispondenze fra la dimensione personale di un professionista della comunicazione e il suo lavoro: il rifiuto degli stereotipi non può che partire dall’autenticità delle esperienze. Ma lasciamo che sia Abbott stesso a illustrare le sue intenzioni. Ai redattori di The Copy Book[1] dichiara:

Tutto qui. Sentimenti, elenchi e via dicendo. E, a proposito di mettere sé stessi nel proprio lavoro, qualche altro esempio. Abbott si fa fotografare supino sul pavimento, sotto una Volvo 740 che pende pericolosamente dal soffitto, con una porzione di carrozzeria appesa a un gancio. Titolo: «Se la saldatura non è abbastanza forte, l’auto cadrà sul copywriter.» Che le saldature delle Volvo siano resistenti è un fatto, ma a volte – spiega Abbott – drammatizzare i fatti fa più colpo che limitarsi a enumerarli.

abbott volvo2

“Se la carrozzeria non è abbastanza resistente, la macchina cadrà sul copywriter.”

In un annuncio di ricerca di personale della DDB, senza immagini, Abbott si rivolge al lettore scrivendo in prima persona: «Sono un copywriter della Doyle Dane Bernbach. Stiamo cercando due nuovi account executive. Questo è ciò che penso dovrebbero sapere sul job.» Seguono due alte colonne di testo. L’incipit è una di quelle confessioni che piacevano a Bernbach: «Quando mi hanno chiesto di scrivere un annuncio per la ricerca di personale, ho detto che non avevo tempo da perdere. “Basta dire che abbiamo bisogno di due account, non c’è bisogno d’altro.”» Ma poi ci ripensa: dopotutto potrebbe capitargli di lavorare con uno dei due ricercati. Forse è meglio fargli sapere in anticipo che cosa ci si aspetta da loro, a scanso di sorprese. E qui Abbott innesca uno dei suoi elenchi che non sembrano elenchi.

Da oltre mezzo secolo scorrono fiumi d’inchiostro sulla rivoluzione creativa innescata negli Stati Uniti da Bill Bernbach: questa rivista, guarda caso, non si chiama né Pippo né Dick, ma Bill. Pure è stato detto e stradetto che la bomba lanciata da Bernbach provocò reazioni a catena non solo nell’advertising americana, ma anche in quella europea. Del resto anche lacreative revolution, inventata negli USA come tante altre pratiche della pubblicità moderna, era perfettamente esportabile. I paesi di lingua inglese partivano favoriti rispetto agli altri, e questo spiega la subitanea fioritura della creatività britannica dopo lo start lanciato da New York. In pochi anni la scena andò popolandosi di personalità di spicco, come Tony Brignull, Tim Delaney, Neil French, Alfredo Marcantonio, Barbara Nokes…

Tra questi e altri notevoli colleghi o rivali, David Abbott – copywriter tra i più acuti ed eleganti che l’Europa abbia avuto – occupa un ruolo simbolico, perché il suo curriculum è legato a Bernbach con un filo diretto. Il motivo è semplice: a ventisette anni David, dopo rapidi soggiorni prima nella house agency della Kodak e poi alla Mather & Crowther, trasvolò da Londra a New York per farsi assumere dal maestro dei maestri, alla Doyle Dane Bernbach.

Sei anni di quella scuola (1965-1971) gli servirono non solo per affinare le virtù di cui era dotato, ma anche per fare di lui uno degli imprenditori di punta della Brit wave. French Gold Abbott prima, Abbott Mead Vickers BBDO dopo, e una costellazione di case histories da capogiro: Volvo, Sainsbury’s, Ikea, Yellow Pages, The Economist… Tutta roba da studiare nelle accademie del marketing e della pubblicità.

“Chivas Regal ha sempre dodici anni di invecchiamento. Raramente tredici.”

Abbott è professionalmente cresciuto in un’epoca e un habitat in cui l’arte del copywriting aveva un peso indiscutibile e riconosciuto. Molti dei suoi lavori più famosi hanno a che fare con la carta stampata: quotidiani, riviste, manifesti. Gli art director e gli artisti del lettering che hanno operato con lui o per lui hanno condiviso, con il pensiero di Bernbach, il rifiuto del superfluo: trasponendo tuttavia quella lezione in un affascinante bagno di cultura britannica, tradizionalmente incline all’eleganza e allo humour.

La campagna di Abbott per i supermercati Sainsbury’s è probabilmente l’esito più memorabile di un format semplice e universale: fotografia, titolo, body-copy, base-line. Manca un solo elemento, il logo della ditta: scandalosa eresia per il 99,9% dei committenti, ma il pubblico neanche se ne accorge: Sainsbury’s è sempre presente nei titoli della serie. Di “classico” c’è la qualità appetitosa dell’immagine (preziosi still-life alimentari di piatti pronti, yogurt, formaggi, carni da hamburger, salsicce, pudding, frutta sciroppata, etc.); l’headline altrettanto invitante; la frase di chiusura di massimo ed eloquente pragmatismo («Good food costs less at Sainsbury’s»: le cose buone da mangiare costano meno da Sainsbury’s); e una perorazione scritta con suadente precisione informativa.

La forza di campagne come questa non sta soltanto nella capacità di dialogare, persuadere e convincere, ma anche nella loro serialità. Format che non vengono sparati e bruciati in un sol colpo, ma che si prolungano per anni con episodi sempre nuovi, assumendo quasi l’aspetto e il tono di una rubrica giornalistica. Gli annunci Sainsbury’s erano appuntamento e calamita per lettrici e lettori desiderosi di saperne di più su cosa portare in tavola, e perché.

“Indovina che sapore ha il nuovo pompelmo in scatola di Sainsbury’s.”
sainsburys“Da Sainsbury’s se non vendiamo la carne trita in giornata, non la vendiamo.”

In Italia, si tende a sottovalutare il ruolo e l’ingegneria della scrittura applicata alla comunicazione d’impresa. Il che è come guidare un’auto con una o due ruote in meno. Persino i potenziali estimatori del testo scritto, siano essi inserzionisti o consulenti, pensano alla scrittura come a qualcosa di libresco, lento e demodé, inadeguato all’era – sempre meno cartacea – in cui stiamo vivendo. È un atteggiamento a dir poco paradossale: nemmeno negli anni di più accesa grafomania il copywriter ha avuto tanto da scrivere quanto ne avrebbe oggi, grazie ai siti web aziendali, ai social network, ai blog e a quant’altro offre la tecnologia. Di obsoleto, semmai, c’è il senso che si continua a dare, per tradizione, al termine “copywriter”: non più descrivibile, oggi, soltanto come artefice di titoli e slogan, sceneggiature di spot, inviti promozionali e cose del genere. Contemporanea sarebbe, invece, una definizione più estensiva: “scrittore su commissione”, per esempio, o “scrittore per conto terzi”; uno, insomma, che risolva per iscritto e a pagamento un problema altrui, o che ad altri crei, rispondendo a un briefing, opportunità commerciali e non. Di tal tipo sarebbe l’interlocutore ideale di qualsivoglia committente, si tratti d’impresa bisognevole d’un website di alto profilo o di celebrità da assistere con appropriato ghost writing, di mercato da mobilitare a favore d’un prodotto o di ente da graziare con una brochure degna di collezionismo. Anche l’art director si gioverebbe di un mix di competenze altrettanto allargato, nel ramo parallelo – quello del segno e dell’immagine – che gli è congeniale. E chi fosse in grado di muoversi abilmente in un orizzonte multidisciplinare di tale ampiezza, non temerebbe né di essere malpagato né di farsi travolgere dalla concorrenza a buon mercato del crowdsourcing.

Se per tuo figlio vuoi la massima sicurezza, o lo avvolgi nella bambagia “O ti compri una Volvo.”
“Se ci riesce lui, può farcela anche una Volkswagen.” Una VW è come Marty Feldman, il comico inglese. Non è granché carina ma ha molte qualità. 

Esistono scrittori e designer così? Ma certo: sono sempre esistiti. Anche quando il web era di là da venire. Anche quando potevi cavartela con un claim e un rough (chiedo scusa ai non addetti ai lavori per l’abuso di slang). Questa digressione, me ne rendo conto, squarcia e corrompe la linearità di un articolo che doveva essere tutto dedicato a David Abbott; ma la colpa è sua, è di David Abbott. Personalità come la sua istigano l’ammiratore a sconfinare dai limiti del campo e a meditare su cosa sarebbe la scrittura su commissione se potesse contare su cento Abbott su mille anziché uno solo. Quando un copywriter cessa di essere semplicemente un copywriter per mettere il proprio talento al servizio di obiettivi d’impegno superiore alla media, ogni aspirante allo stesso mestiere dovrebbe raccogliere la sfida e seguirne l’esempio.  Uno come lui avrebbe potuto concepire e organizzare con la penna qualsiasi cosa: non solo la comunicazione della Volkswagen ma anche un intero saggio sulla comunicazione della Volkswagen (l’ha fatto davvero, in team con Alfredo Marcantonio e John O’Driscoll); così come un altro David prima di lui, il signor Ogilvy, ha lasciato dietro di sé una bibliografia consultabile tuttora con profitto. Fine della digressione.[2]

Non si può parlare di Abbott senza magnificare il lavoro fatto da lui e dal suo team per The Economist. Alfredo Marcantonio ha ricostruito quella case history in un libro appassionante,Well-written and red.[3] La saga parte nel 1988 con il poster più citato, quello dell’aspirante manager in perpetua condizione di stagista perché trascura letture che potrebbero essergli utili. Il rilancio della testata si basa su un principio di fondo alquanto arrogante: The Economist è una rivista per lettori dotati, gente con un quoziente d’intelligenza superiore. Ogni messaggio diventa un test. Il cripticismo – da sempre nemico numero uno della comunicazione, che di default deve farsi capire – diventa, paradossalmente, il clou della festa. La pubblicità ti sfida a comprendere, se ne sei capace, cosa ti sta mettendo sul piatto.

È pur vero che The Economist non è né un detersivo per lavatrici né la Coca-Cola, e che le regole raccomandano in tal caso di restringere il target a un’élite di persone culturalmente compatibili con quanto viene offerto. Ma la pianificazione della campagna, scegliendo di tappezzare il paesaggio urbano anziché rifugiarsi entro i soliti mezzi di nicchia, è un guanto coraggiosamente lanciato in mezzo alla folla.

Prima di sparare i poster rossi, l’agenzia aveva sfornato una serie di annunci-stampa sovraccarichi di testo. Ottimi annunci, brillanti, non c’è che dire: destinati ad altre pubblicazioni – quotidiani, supplementi, testate specializzate – e, come si suol dire, “in target”. Ma c’erano almeno due problemi da affrontare: uno scientifico e l’altro, per così dire, emotivo. Il primo, più serio, stava nel fatto che i canali fin lì percorsi avevano già dato tutto quel che potevano dare, per cui la crescita della readership era a uno stallo. L’altro problema era, almeno per noi, più divertente. Quando scrivi pubblicità per un editore, l’editore mette in campo la propria legione di scriventi – direttori di testata e altri giornalisti – per fare le pulci a ogni pensiero, frase, parola e virgola di tuo pugno. E a riscrivere di sana pianta questo o quel passaggio. Uno stress insostenibile, specialmente per uno come Abbott. La disaffezione verso icopy ads e la pianificazione classica dei media cresceva, per motivi diversi, sia nelle file del committente, sia in quelle dell’agenzia.


economist“Non ho mai letto The Economist. Stagista dirigenziale. Anni 42.”

A un certo punto si fa strada un’idea furba, quella di pescare ammiratori lanciando l’amo nel mucchio; e l’amo altro non è se non l’amplificazione del rettangolo rosso della testata, le cui misure, manco a farlo apposta, sono direttamente proporzionali a quelle di un poster da 48 fogli. Pubblicità esterna (manifesti, mezzi di trasporto, stazioni underground e altre postazioni pubbliche). Uno spreco? Apparentemente sì, a conti fatti no. Dispersione, forse, se si spera di moltiplicare in quel modo il numero dei lettori (anche se, su quel fronte, è andata assai meglio del previsto).[4] Raffinata astuzia se il pubblico considerato come primario non è più il potenziale lettore tout court, ma l’azienda da convincere a investire con la propria pubblicità sulle pagine di The Economist – il settimanale che passa tra le mani dei businessmen che contano, quelli che prendono le decisioni importanti.

Sia come sia, il caso è di quelli che soddisfano in pieno l’investitore e il reparto creativo dell’agenzia nel suo complesso. A contare sulle sole file creative partecipano alla saga, negli anni, non meno dei circa cinquanta autori identificati, a partire da David Abbott e Ron Brown.[5]

“Se più donne leggessero The Economist, ci sarebbero meno posti di lavoro per i maschi.”

La campagna ha un merito laterale: quello di aver decorato in modo amabile i centri storici del paese, svolgendo la funzione di arredo urbano e – in senso più lato – ambientale. Non solo: ha lanciato esche didattiche di contenuto sociale («Se più donne leggessero The Economist, ci sarebbero meno posti di lavoro per i maschi.»), professionale («Un poster dovrebbe contenere non più di otto parole, ovvero il massimo che il lettore medio riesce ad afferrare a colpo d’occhio. Questo, però, è un poster per i lettori di The Economist.»), provocatorio («Assicurati di non essere tu l’eccedenza di bagaglio.»).

“Segreti industriali in vendita.”

Ha senso studiare e analizzare la pubblicità del passato, sia pure recente? La pubblicità non è la quintessenza dell’effimero, del volatile, del mordi-e-fuggi? Sono domande comprensibili, se e quando si pensa alla comunicazione commerciale soltanto come a una rottura di scatole. Tuttavia, come altre espressioni del business, la pubblicità fa parte – una parte ingombrante, a pesarne il solo impatto quantitativo – della scena che ci avvolge, e subirla senza affondare ogni tanto il punteruolo sotto la crosta è come rinunciare a trarne qualche vantaggio, o a difendersene. Il fenomeno investe troppe facce dell’esistenza perché ci si possa permettere il lusso di ignorarne i meccanismi o liquidarlo con una fugace smorfia di disprezzo. L’evoluzione di modalità e linguaggi finalizzati agli affari ha ovviamente un’importanza indiscutibile per gli addetti ai lavori, ma è rilevante anche per chiunque sia vagamente interessato all’etica, al costume, alla didattica, alla semiologia, alla critica, all’estetica, ai media, all’economia, alla politica. A volte è la pubblicità stessa – quella dei Bernbach e degli Abbott – a suggerire gli strumenti critici più idonei alla disamina razionale del cosiddetto “sistema”.

© Pasquale Barbella

“Prima scava, poi scrivi.”

 

[1] The Copy Book, a cura di The Designers and Art Directors Association of the United Kingdom, ed. Rotovision, Mies (Svizzera), 1995.

[2] Abbott ha lasciato la pubblicità a sessant’anni, nel 1998, per dedicarsi alla letteratura. Nel 2010, quattro anni prima di morire, ha pubblicato un romanzo, The Upright Piano Player, accolto favorevolmente dalla critica.

[3] Dakini Books, Londra, 2002.

[4] La pubblicità per The Economist ha contribuito a un incremento del 2,4% delle vendite in edicola e del 5,7% negli abbonamenti. Nel 2001 la diffusione del magazine nel Regno Unito ha avuto un’impennata da 86.000 a 141.000 copie, con un incremento di circa il 65%. (Fonte: A. Marcantonio, op. cit.).

[5] Gli altri sono Matthew Abbott, Andy Argyhrou, Stuart Baker, Chris Bardsley, Nick Bell, Cam Blackley, Paul Brazier, Paul Briginshaw, Tony Brignull, Jeremy Carr, Martin Casson, Damon Collins, Mark Cooper, Daryl Corps, Sean Doyle, Malcolm Duffy, Mike Durban, Dave Dye, Tom Ewart, Richard Foster, Peter Gausis, John Gorse, Ken Grimshaw, Mike Harris, David Hieatt, John Horton, Ben Kay, Tony Malcolm, Alfredo Marcantonio, Kit Marr, Gary Martin, Greg Martin, David May, Guy Moore, David Newton, Mike Nicholson, Rob Oliver, Tim Riley, David Rossiter, Peter Russell, Peter Souter, Tony Strong, David Sullivan, Gideon Todes, Mary Wear, Nick Wray, Paul Young.

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